Vietiamo le pubblicità dei combustibili fossili?
🌍 Il colore verde #78: È sempre più forte e convincente la voce di chi chiede la messa al bando delle pubblicità delle grandi aziende di gas, petrolio e carbone.
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Tema di dibattito: dobbiamo vietare le pubblicità delle grandi aziende dei combustibili fossili (petrolio, benzina, gas, carbone)?
Scommetto che non ci hai mai pensato, però ora riflettici: i combustibili fossili sono la principale causa della crisi climatica – perché il loro utilizzo produce l’aumento crescente dell’effetto serra e delle temperature globali – è giusto che continuino a promuoversi su tv, radio, giornali cartelloni e web?
In fin dei conti, è proprio quello che è successo con il tabacco. Pubblicizzare le sigarette è vietato nell’Unione europea dal 2005 e in Italia addirittura dal 1962, con una norma che nel corso degli anni è stata aggiornata e allargata ai nuovi media.
A risolevare il tema delle pubblicità ai combustibili fossili è stata la ong Greenpeace, che ha lanciato una campagna proprio in questi giorni insieme ad altre 20 associazioni ambientaliste. L’obiettivo è raccogliere almeno un milione di firme nei Paesi europei: si tratta infatti di una Ice, un’iniziativa dei cittadini europei. L’Ice è un meccanismo ufficiale previsto dall’Ue: la Commissione europea ha l’obbligo di discutere e pronunciarsi sulle proposte della popolazione se vengono raccolte un milione di firme provenienti da almeno 7 Stati.
Qui trovi il link per firmare (serve anche un documento).
Ho chiesto a Federico Spadini di Greenpeace Italia di fare un po’ di chiarezza sul tema. A partire dalla domanda: «Ha veramente senso? Non ci sono ben altre questioni climatiche più importanti?».
«La nostra iniziativa si inserisce in un disegno più grande: cercare di fermare la pubblicità di queste grandi aziende può sembrare poco importante, ma dobbiamo renderci conto che il settore delle fonti fossili ha uno potere di immagine ancora enorme» spiega Federico.
«Significa capacità di influenzare il mercato, influenzare la politica, influenzare ognuno di noi. Non è solo una questione di spot classici, ma anche di sponsorizzazioni di progetti educativi e iniziative culturali, con cui le aziende di gas e petrolio provano in maniera più o meno esplicita a deviare l’attenzione del pubblico dalla necessità di una transizione energetica rapida».
Lanciando la petizione, Greenpeace ha anche mostrato i risultati di uno studio del gruppo DeSmog sulle pubblicità degli ultimi anni di colossi come Shell, Eni, Total e Repsol.
L’analisi parla chiaro: il 63% degli annunci sono classificabili come puro “greenwashing”, ovvero un tipo di marketing che vuole far credere che un marchio è più “verde” di quanto lo sia veramente. Spot che minimizzano gli effetti dannosi sul clima degli idrocarburi, oppure pubblicità che mettono al centro le iniziative sostenibili dell’azienda, quando invece sono solo una piccolissima parte delle operazioni.
Eni per esempio dedica solo l’8% delle pubblicità alle sue attività principali, quelle legate a gas e petrolio, anche se corrispondono all’80% del suo portfolio di investimenti. Preem, gigante svedese del petrolio, dedica l’81% delle sue pubblicità a soluzioni sostenibili, ma queste rappresentano solo l’1% delle operazioni.
Non è solo una questione di rappresentazione, ma anche di attendibilità. Da decenni le aziende delle fonti fossili alimentano fake news, negazionismo e inattivismo, anche attraverso le pubblicità. Per citare di nuovo l’Italia: Eni a inizio 2020 ha ricevuto dall’Antitrust una multa da 5 milioni di euro per pubblicità ingannevole sul carburante “EniDiesel+”, raccontato come soluzione “verde”, quando verde non era.
Certo, ci sono delle controindicazioni all’iniziativa di Greenpeace.
La prima è la più semplice: potrebbe essere inutile. Proprio come tutti continuano a fumare nonostante il divieto di pubblicità, le grandi aziende fossili continuerebbero imperterrite le loro operazioni.
La seconda è di carattere etico: se vietiamo queste pubblicità, forse dovremmo vietare anche le pubblicità di altri prodotti inquinanti. Ma poi non ci potremmo fermare qui. Che dire dei fast-food e di tutto il cibo spazzatura, causa principale dell’obesità – che al momento fa più di 2 milioni di morti all’anno?
Insomma, dovremmo vietare quasi tutto, con un bilancino morale sempre più sensibile.
Ma se rimaniamo sul punto iniziale, come spiegava Federico Spadini, la battaglia è più ampia della semplice pubblicità e allo stesso tempo molto specifica per il settore preso di mira.
Secondo il Carbon Majors Report, il 71% delle emissioni di gas serra antropiche dal 1988 a oggi si può ricondurre a sole 100 grandi multinazionali dei carburanti fossili (c’è anche l’italiana Eni, 30ª in classifica, 0,59%). Certo, tutti consumiamo l’energia prodotta da queste società, ma non siamo certo noi a programmare come e con cosa uno Stato o un’azienda soddisfa il suo fabbisogno energetico.
Nonostante i proclami, le riunioni internazionali, gli obiettivi di aziende e di governo, il nostro è ancora un mondo spinto da petrolio, gas e carbone. E la transizione energetica verso fonti rinnovabili invece di accellerare sembra rallentare. Ce ne accorgiamo in questi giorni: il dibattito sull’aumento delle bollette preoccupa i leader di molti Paesi, che già annunciano passi indietro rispetto alla decarbonizzazione.
A due settimane dalla Cop26 di Glasgow (cos’è? l’ho spiegato qui), l’Agenzia internazionale dell’energia, l’Iea, ha pubblicato un preoccupante report: anche se gli Stati mantenessero tutte le loro promesse fatte finora, nel 2050 la riduzione delle emissioni sarebbe solo del 40%, rispetto all’obbiettivo fondamentale delle emissioni nette zero (quindi una riduzione del 100%).
Per ottenere quel restante 60%, spiega l’Iea, ci vorrebbe un investimento globale di 4 mila miliardi nei prossimi dieci anni. Che sembra tantissimo, ma considera questo dato fornito dal Fondo monetario internazionale: solo nel 2020 l’industria delle fonti fossili ha ricevuto 5,9 mila miliardi di incentivi dai governi (sgravi fiscali, detassazioni, etc).
Ecco perché riconsiderare le nostre priorità e la nostra visione del mondo passa anche dalla comunicazione. Le parole che scegliamo, le immagini che mostriamo – e ciò che permettiamo che venga detto e mostrato – influenzano i nostri pensieri e le nostre azioni. Può sembrare un piccolo gesto firmare contro le pubblicità delle aziende di petrolio e gas, ma sarebbe sicuramente un altro passo nella giusta direzione.
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📰 I link
La chiave dei rincari del gas si trova in Russia. Su Internazionale.
Perché il mondo di colpo è a corto di energia. Enrico Pitzianti su Greenkiesta.
La Shell costretta a rimborsare con 111 milioni di dollari le comunità del delta del Niger. Davide Lemmi su Lifegate.
Uber e Lyft inquinano più delle auto private. Viola Stefanello su The Submarine.
Può l’industria dell’acciaio e del cemento decarbonizzarsi? Su Inside Climate News.
Visualizzare il nostro futuro: un progetto che simula, nelle città famose del mondo, l’innalzamento dei mari. Su Climate Center.
Climate Fresks è è un movimento internazionale di volontari nato per divulgare la scienza del cambiamento climatico. Saranno alla Cop26 e stanno cercando nuove figure da coinvolgere. Qui il loro sito e qualche info in più.
👇 La cosa più bella
La cosa più bella che vedrai questo weekend? Le foto vincitrici del Wildlife photographer of the year, concorso fotografico che premia i migliori scatti della fauna selvatica. A me piace da matti la foto di questi due orse polari nella Baia di Hudson, nel mar Glaciale Artico. Le altre vincitrici, qui.
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