Un mondo che non esiste più
🌍 Il colore verde #43. In India una diga è stata distrutta per il crollo di un ghiacciaio. Un disastro che ricorda quello del Vajont: ma cause e colpe sono ben diverse
«Scrivo da un paese che non esiste più». Così inizia il reportage da Longarone di Giampaolo Pansa pubblicato sulla Stampa l’11 ottobre 1963.
Due notti prima una frana dal Monte Toc provoca la tracimazione del lago artificiale della diga del Vajont da poco costruita nella valle tra Veneto e Friuli. L’acqua inonda i versanti e il fondovalle con ferocia indescrivibile. Il bilancio è quello delle guerre: 2018 morti. Le cause, precise: la Sade, società costruttrice la diga, aveva occultato i rischi di quei monti fragili pur di portare a termine il progetto.
Cito Pansa – il suo incipit è tuttora tra i più studiati – perché questa settimana i media hanno paragonato il disastro del Vajont a un evento simile appena avvenuto in India. 58 anni dopo e a 6000 chilometri di distanza.
Andiamo oltre i titoli. Siamo nel nord del Paese, nello stato dell’Uttarakhand. A un passo dal Tibet e dal Nepal e sotto la catena dell’Himalaya. Zoomiamo ancora, arrivando nelle valli di due fiumi – il Dhauli Ganga e il Rishi Ganga, affluenti indiretti del sacro Gange – dove da circa 15 anni si trovano delle dighe e degli impianti idroelettrici.
La scorsa domenica, 7 febbraio, intorno alle 10.30, una gigante onda di acqua, detriti, macerie ha invaso le vallate. Nessun allarme, nessuno avviso. Una diga è stata spazzata via, l’altra irreparabilmente danneggiata. Sono stati colpiti almeno 13 villaggi del distretto di Chamoli, con 2500 persone bloccate o sfollate. Al momento i morti sono 37, i dispersi 167 – quasi tutti tecnici degli impianti.
L’evento scatenante è stato chiarito qualche giorno dopo la tragedia: dalla montagna si è distaccato un ghiacciaio, causando una frana e poi l’alluvione. La causa è stata subito auto-evidente: «Questo è un caso legato al cambiamento climatico» ha spiegato una scienziata indiana che lavora per le Nazioni Unite.
I ghiacciai, infatti, sono “i canarini della miniera” del cambiamento climatico: proprio perché pochi gradi possono fare la differenza tra ghiaccio e acqua, subiscono per primi gli effetti del surriscaldamento. L’evento di domenica, avvenuto in pieno inverno, fa capire la portata dell’emergenza.
Nell’Himalaya sono presenti più di 15.000 ghiacciai. Si stanno ritirando di 20-30 metri ogni anno. Frane e alluvioni sono la conseguenza: nel 2013, nelle stesse valli del Uttarakhand, il crollo di un ghiacciaio ha causato 5748 morti. Da allora poco si è fatto per gestire il rischio.
La grande differenza con il Vajont è proprio questa: le colpe non sono solo di un’azienda, ma in un certo senso di tutti noi. Anche a migliaia di chilometri, le nostre emissioni di gas serra danneggiano quella terra così magica, fragile.
Una terra sacra, come racconta il libro Il tempo e l’acqua dell’islandese Andri Snær Magnason (Iperborea), uno dei più bei libri del 2020 sull’ambiente. L’autore scopre delle similitudini tra i miti della sua isola e la tradizione indiana. In entrambe le culture il ghiaccio è all’origine della vita e della prosperità – addirittura alcune parole in islandese e in sanscrito sono simili – e c’è un’immagine ricorrente: quella di un’enorme mucca sacra fatta di brina, «metafora perfetta per un ghiacciaio perché l’acqua di un fiume glaciale non è acqua qualsiasi: è colorata di bianco per i minerali disciolti».
I ghiacciai e il loro lento ciclo danno origine alle arterie vitali della terra. Sono “mucche di brina” che distruggiamo ogni giorno occultandone i rischi.
Nel reportage del New York Times dal Uttarakhand, tra le varie voci raccolte, c’è quella Ratan Singh Rana, un cinquantacinquenne che viveva vicino alla diga distrutta. Racconta: «Ero seduto sul pavimento della mia casa quando ho visto scendere dalla montagna un liquido nero. C’era anche un gran rumore. Sembrava l’eruzione di un vulcano. Abbiamo iniziato a correre, piangendo e urlando “Bhago, bhago! Bachao, bachao!’”», che in hindi significano “correte” e “salvateci”.
E conclude: «Ho pensato che fosse la fine di tutto. Ho pensato che il mondo intero sarebbe affogato quel giorno».
Scrivo da un mondo che non esiste più.
Quattro segnalazioni di lettura/visione:
La cartografa del Papa: una giovane cattolica ambientalista prova a rivoluzionare il Vaticano. (Sul New Yorker, o la sintesi del Corriere)
Il coronavirus non è nato in laboratorio, ha concluso l’Organizzazione mondiale della sanità dopo la sua lunga indagine a Wuhan. L’origine è con tutta probabilità animale.
Ma alla fine cos’è questo super ministero della transizione ecologica? Il Post fa il punto, ancora un po’ al buio.
Come l’usato sta cambiando il futuro del fashion, l’ultima puntata della newsletter “Let me tell it”
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