Tomba d’acqua
🌍 Il colore verde #123. La tragedia delle Marche chiude il cerchio di un’estate devastata dalle tragedie climatiche. Cosa facciamo ora?
Ti scrivo nel giorno peggiore. Il fango delle Marche è ormai secco, ovunque su ogni strada, casa, mobile, oggetto. La conta dei morti è quasi finita e al di fuori della regione devastata si inizia già a pensare ad altro. Il mondo va avanti, l’Italia va avanti, anche se oggi nessuno dovrebbe.
Avevo preparato una newsletter diversa per te, oggi finalmente ottimista, con notizie positive arrivate dal mondo e persino dal nostro Paese. Le trovi, in breve, a fondo della mail, dove oggi invece non troverai foto né consigli di lettura. Ma l’attualità però ha distrutto la speranza. Perdonami se la puntata di oggi non ti lascerà possibilità di distrazione.
Seppellire i morti, riparare i viventi
Quello che è successo nella tarda serata di giovedì nelle Marche non è solo l’ennesimo, devastante disastro meteo-climatico che subiamo. É la tragica quadratura del cerchio, l’ultima piaga dell’estate peggiore di sempre. Una stagione iniziata con la tragedia della Marmolada, proseguita con gli incendi e la siccità, conclusa con l’alluvione improvvisa che ha colpito una moltitudine di paesini marchigiani.
Dieci morti, ancora tre dispersi. Ponti, case, edifici pubblici e aziende riempite di fango. L’acqua che è piovuta in poche ore in media scende in quattro mesi. La siccità che ha preceduto la tragedia, lo sfruttamento e l’edificazione senza regole del suolo, la mancanza di pulizia degli argini hanno fatto il resto: a esondare non è stata solo acqua, ma tronchi e detriti che hanno fatto da tappo fino a far esplodere gli argini, saltare i ponti.
L’allerta meteo diramata dalle autorità non era grave, nessuno aveva previsto quello che poi è stato definito “temporale autorigenerante”, un’espressione terribile per dire che certe perturbazioni che si formano sulle montagne e poi scendono a valle possono caricarsi grazie all’umidità e al calore che trovano a più basse altitudini.
C’è chi è morto senza neanche accorgersi della fine del mondo, e chi è stato travolto mentre provava a mettere l’auto al riparo, pensando che l’acqua non avrebbe certo provocato problemi più gravi. Oggi su La Stampa Niccolò Zancan racconta alcune di quelle vite: un reportage che interrompe il battito del cuore.
Tomba d’acqua, ha titolato questa mattina il Manifesto. Morti di clima, morti di incuria e disinteresse. Sette ore di Apocalisse, scrive invece Repubblica. Clima Killer, il Tempo. Tutte le prime pagine dei giornali hanno raccontato la tragedia.
Queste sette ore e questi tre mesi ci rimarranno per sempre impressi, come tatuaggi sottocutanei, come dolorose cicatrici nel nostro dna.
Sono arrabbiato e dispiaciuto, sono devastato, soffro, come soffri tu, come soffre ognuno di noi, oggi, tutti marchigiani. Sappiamo bene che non sarà l’ultima tragedia. Dovremmo fermare tutto: un minuto di silenzio, un giorno di silenzio, una settimana di silenzio.
Anzi dovremmo fermarci e poi ripartire subito, senza parlare d’altro. Dovrebbero farlo i politici e noi dovremmo chiederlo. É stata una delle campagne elettorali più deludenti di sempre: clima, ambiente, energie e infrastrutture resilienti sono solo jolly per provare a pescare qualche nuovo voto. Tattica spicciola e mai strategia seria. Il giornalista Gian Antonio Stella sul Corriere ha scoperto che l’espressione “rischio idrogeologico” non è mai finita negli articoli che riassumono i comizi elettorali o le interviste dei sei principali leader candidati. MAI. Secondo un monitoraggio di Greenpeace svolto sui principali telegiornali, le dichiarazioni rilasciate dai leader riguardo la crisi climatica sono meno dello 0,5% sul totale delle frasi pronunciate.
Che cosa farà il prossimo governo e il prossimo parlamento per la fragilità del territorio italiano? E per ridurre gli effetti del climate change? E per gestire una giusta transizione energetica che non provochi danni all’ambiente e riduca le diseguaglianze? Non vale più la risposta piglia-tutto del “ci sono ben altri problemi”, perché se qualcuno osa rispondere così vada a vedersi l’album delle tragedie recenti: le foto dei cadaveri ritrovati nel fango della Marche, i racconti dei corpi smembrati dalla valanga di ghiaccio della Marmolada. Il climate change, oggi, si misura anche al cimitero.
Crisi climatica e rischio idrogeologico sono due temi legati a stretto giro, qui nel nostro “Belpaese”. Perché l’Italia non solo è uno dei Paesi più fragili di tutto il Mediterraneo, per la sua conformazione e per l’ostinatezza dei suoi abitanti a costruire ovunque, spesso senza le opportune precauzioni; ma anche perché il Mediterraneo è uno dei punti dove il climate change agisce con più intensità. Le temperature più alte causano siccità maggiori, ma anche perturbazioni estreme sempre più forti e frequenti. Il cambiamento climatico, come ripetiamo ormai da anni, ha un effetto moltiplicatore.
La fragilità idrogeologica, ai tempi dell’emergenza climatica, diventa minaccia costante. (Qualche anno fa era uscito un saggio premonitore, proprio sul binomio clima e rischio: “L’equazione dei disastri”, di Antonello Pasini, Codice edizioni, lettura consigliata in momenti come questo).
Finite le lacrime, seppelliti i morti, abbiamo solo un compito. Riparare il mondo. Riparare l’Italia. Riparare ciò che è vivo, proteggerlo. Mettere in sicurezza la natura dal nostro tocco letale, e salvaguardare la vita umana dalle reazioni ormai imprevedibili della natura.
Un solo compito.
Le altre due notizie, positive, che avrei voluto raccontarti oggi con molto più entusiasmo.
⛰️ Un’altra economia è possibile: la rivoluzione di Patagonia
“Il nostro unico azionista ora è il Pianeta”, ha scritto l’imprenditore americano Yvon Chouinard, fondatore del brand Patagonia, nella lettera in cui ha annunciato di voler donare tutta l’azienda alla lotta al cambiamento climatico e alla salvaguardia ambientale. Una scelta che ha scosso, e non poco, il mondo del business.
Chouinard, tipo stravagante, ex scalatore, imprenditore riluttante, aveva fondato Patagonia per produrre indumenti per escursioni e avventure outdoor rispettando il Pianeta. L’azienda, che vale circa 3 miliardi e ha un fatturato annuo di 1 miliardo, già ora dona l’1% dei profitti a iniziative per l’ambiente, e tutta la filiera produttiva è gestita in maniera sostenibile.
Indeciso se venderla, quotarla, lasciarla ai figli o addirittura trasformarla in una cooperativa, Chouinard ha scelto una strada senza precedenti. “Instead of ‘going public’. you could say we’re ‘going purpose’”, come lui stesso ha detto.
Ha trasferito l’intera proprietà a due nuove entità: il Patagonia Purpose Trust (2%), che gestirà gli affari dell’azienda, mantenendola competitiva e profittevole, e l’Holdfast Collective (98%), una onlus che userà i dividendi per proteggere il pianeta. L’operazione, come raccontano i giornali, sembra priva di retro-pensieri e furberie: addirittura il passaggio di proprietà costerà decine di milioni di dollari in tasse.
Un altro sistema economico è possibile, e questa storia lo dimostra. Potremmo parlare per ore di questa notizia, ma appunto non è giornata, però se lavori nel mondo della sostenibilità, o se la tua azienda si sta affacciando ora a queste tematiche, la storia di Patagonia, questo annuncio e il suo futuro d’ora in poi fanno parte di un importante caso di studio, oserei dire imprescindibile. Dimostrano che un altro capitalismo è possibile, e che esiste un sistema economico dove non ci siano solo poche persone ad arricchirsi sulle spalle degli altri. Ti lascio qualche link:
Billionaire No More: Patagonia Founder Gives Away the Company (New York Times)
Perché la scelta del fondatore di Patagonia non ci stupisce (Esquire)
Scalatore, surfista, innovatore: chi è Yvon Chouinard (Repubblica)
If Yvon Chouinard’s Patagonia giveaway plan works, he will have solved one of capitalism’s greatest challenges (Fortune)
🌊 Un altro mare è possibile: il progetto Seaty a Golfo Aranci
Questa settimana ho fatto un salto, anzi un tuffo a Golfo Aranci. Nord-est della Sardegna, posto meraviglioso. Non ero lì non per svago o vacanza, ma perché Worldrise - onlus dedicata alla salvaguardia marina - a Golfo Aranci ha lanciato un piccolo ma significativo progetto pilota per proteggere coste e acque del nostro Mediterraneo. L’iniziativa si chiama Seaty, che si legge come city, ma che dentro di se racchiude la parola sea, mare. Ti spiego rapidamente cos’è Seaty, poi ci saranno presto occasioni per parlarne ancora meglio.
Insieme alle amministrazioni locali (in questo caso, comune e regione) e finanziati da Fastweb, Worldrise ha delimitato un’area di mare lunga 1300 metri e larga 100 dove ora è vietato navigare e pescare. É però balneabile tutto l’anno. All’interno dell’area, la onlus così può monitorare gli ecosistemi marini, che grazie ai divieti di sfruttamento si rigenerano con rapidità senza precedenti. Non solo: Worldrise qui organizza attività didattiche per adulti e bambini, sessioni di pulizia della spiaggia. Qui arrivano studenti di biologia da tutta Europa, con tanto di borse di studio; ci sono cartelli informativi per strada e sott’acqua; e addirittura vengono organizzate sessioni di yoga al tramonto. Perché la spiaggia e il mare sono di tutti, ma soprattutto di chi le abita: piante, alghe, pesci, molluschi. Li ho visti da vicino, facendo snorkeling per la prima volta in vita mia, accompagnato da un biologo tedesco di Worldrise che in questi primi due mesi di vita del progetto ha fatto da Cicerone sottomarino a chiunque volesse provare: wow.
Mariasole Bianco, biologa marina e divulgatrice scientifica, fondatrice della onlus, mi ha spiegato che questa è una soluzione ibrida che fa parte della loro campagna 30x30: entro il 2030 rendere area protetta il 30% del Mediterraneo, seguendo l’obiettivo stabilito a livello globale dalle Nazioni Unite. Non sempre è facile rendere “area marine protette” le coste italiane, perché l’iter burocratico è complesso e i divieti sono massimi; così Seaty si inserisce con una soluzione più rapida e facilmente gestibile dalle amministrazioni locali. In gergo tecnico l’area fa parte delle Oecm, other effective area-based conservation measures, che negli ultimi anni stanno riscontrando particolare successo (come alcuni studi già certificano).
Il prossimo passo è una nuova Seaty, a Salina, nelle Eolie. Trovate le giuste linee guida e assimilate le esperienze, Seaty sarà replicabile in tanti altri punti d’Italia: luoghi dove imparare a proteggere il mare Mediterraneo, uno dei più ricchi di biodiversità al mondo, dove le specie presenti in rapporto alla superficie è 10 volte maggiore della media dei mari del resto del globo.
Ti racconterò ancora di Seaty, intanto volevo presentartelo e, in questo brutto sabato, farti tornare un po’ di fiducia nel futuro.
💚 Grazie!
Se sei arrivat* fin qui sotto, vuol dire che Il colore verde ti piace davvero e ti è utile: grazie per supportare questa newsletter. Il colore verde è nato nel 2020 e lo curo io, Nicolas Lozito, friulano, 31 anni. Sono un giornalista e lavoro a La Stampa. La newsletter esce ogni sabato, feste incluse. Nel 2021 ha vinto un premio, assegnato dal Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici e Radio 3 Scienza.
La comunità de Il colore verde ha anche un bosco di 100 alberi in Guatemala, piantato da ZeroCO2: trovi la sua storia e i suoi dati qui.
Da quando mi occupo di ambiente, ho curato anche tre podcast: Climateers (2021, prodotto da Pillow talk), Cambiamenti (2022, Emons record), e Verde speranza (2022, Onepodcast/La Stampa).
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Molto emozionante, bravo Nicolas!