Indosseremo giacche di pelle di fungo
🌍 Il colore verde #48. Giada Dammacco, designer di Grado Zero Innovation, spiega i tessuti che useremo in futuro: ecologici e biodegradabili
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Ancora oggi, facciamo fatica a superare il mito del Made in Italy, pensando che sia tutto tradizione e vecchie maniere. Non è così: innovazione e piccole rivoluzioni sono necessarie. Persino nei campi più conservatori, come quello della moda e dei tessuti.
Ti voglio raccontare la storia di Giada Dammacco, designer barese classe 1980, co-fondatrice di Grado Zero Innovation, società di Montelupo Fiorentino specializzata in tessuti “alternativi”.
Prendo in prestito due termini inglesi per spiegare di che tessuti parliamo: da una parte gli smart-textiles, materiali hi-tech capaci di raccogliere dati, agevolare movimenti, ridurre i rischi; e dall’altra i tessuti bio-based, ovvero filati che si basano su materiale organico sostenibile.
«Ho sempre avuto la passione per la moda e la tecnologia – mi racconta Giada – Ma quando ho iniziato a studiare design industriale non c’era un collegamento visibile tra i due ambiti».
Dammacco li unisce da sola. Come progetto finale dei suoi studi all'ISIA Roma, nel 2004, crea lo “Spacebra” (tradotto: reggiseno spaziale): un reggiseno dotato di leghe nickel-titanio e circuiti elettronici in grado di svolgere diverse funzioni, dall’individuazione di noduli mammari al monitoraggio dei parametri vitali.
Del prototipo si interessa persino la Nasa. Giada capisce che c’è un mondo da reinventare: unisce le forze con Filippo Pagliai e, nel cuore della Toscana, prende vita Grado Zero.
Il loro laboratorio è uno spazio ibrido e molto affascinante: sartoria, chimica, elettronica. Un lavoro di squadra (ora sono in 10), menti differenti per un approccio multidisciplinare.
Nel 2008 Grado Zero crea un tessuto che si auto-stira con il phon: ora è esposto al Museo del Design di Chicago. Nel 2014 Giada arriva in finale al Compasso d’Oro grazie alle nuove divise per i volontari del primo soccorso di Empoli. Nel 2016 l’azienda inventa un guanto intelligente per la riabilitazione della mano a seguito di traumi, grazie a un tessuto luminescente che risponde agli impulsi meccanici.
«Una parte delle nostre attività è al servizio di altre aziende che ci chiedono di sperimentare soluzioni specifiche. L’altra è diretta alla ricerca pura, attraverso Università o bandi europei. Le due anime si auto-alimentano di continuo. È così che abbiamo capito di doverci concentrare sui materiali organici, la sostenibilità, il “fine vita” dei tessuti».
Il cuore della storia è proprio questo. Dalla Nasa alle bucce di banana: l’innovazione non è solo alta tecnologia. Negli ultimi anni il campionario di Grado Zero si è allargato ai materiali bio-based. Carta di alga, tessuti basati su scarti organici della frutta, filati di ortica o di cipresso, e tessuti con la lignina raccolta dagli scarti della lavorazione del legno.
E poi c’è Muskin, fiore all’occhiello dell’azienda. «Una pelle creata con un fungo parassitario presente nelle foreste sub-tropicali, il Phellinus ellipsoideus. Noi prendiamo la parte superiore del fungo e la lavoriamo: il risultato è un prodotto 100% organico e biodegradabile. È già disponibile, ma stiamo anche progettando una versione a “fogli”, più utile per il mondo della moda». Muskin è di color marrone, con striature che ricordano il cuoio e il legno. (Se vuoi toccarlo con mano, puoi ordinare un campione per 20 euro, o acquistare porzioni più grandi).
Sembra un esperimento pazzo, costoso, inutile. Non lo è. Perché la domanda mondiale di vestiti cresce, e con essa l’inquinamento del settore. Il 5% delle emissioni globali di CO2 è prodotto dall’industria della moda. Per ogni abitante della terra vengono prodotti in media 20 nuovi capi d’abbigliamento all’anno. E la lavorazione del cuoio è uno dei processi con il più alto uso di risorse (e uccide più di 1 miliardo di animali all’anno).
La ricerca di soluzioni alternative è necessaria. Artigiani e grandi marchi sperimentano già: Muskin è stato usato da Adidas e Clarks, per esempio. Nel mondo, accessori e vestiti in pelle di fungo sono già in commercio: guidano Stati Uniti, Corea e Indonesia, dove le aziende sfruttano il micelio, la radice del fungo, che a differenza di Muskin ha bisogno di una struttura su cui appoggiarsi.
Chiedo a Giada se si aspetta un’umanità vestita di giacche di fungo, maglie di banana, calzetti d’alga. Non esita un istante: «Sicuramente sì. Ci abitueremo all’idea di abiti “biodegradabili”, e saremo disposti a pagarli leggermente di più proprio perché più sostenibili».
Sono costretto a farle un’ultima domanda, ma sono certo che il dubbio ce l’hai anche tu: ma non è che la pelle di fungo puzza? La risposta racchiude un’intera filosofia: «Profuma di bosco».
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Ps. Se vuoi approfondire il macro-tema dei tessuti del futuro, qui un mio articolo sul Messaggero.
Iniziative verdi:
Ho scoperto Ecosia, il motore di ricerca che più lo utilizzi più pianta alberi (ovvero che usa buona parte dei ricavi pubblicitari per finanziare enti che piantano alberi). Ne ha parlato Il Post. Puoi provarlo direttamente qui.
Gli amici di ZeroCO2 invece piantano un albero ogni 10 like a questo post Instagram.
Il 22 marzo è la giornata mondiale dell’acqua: segnalo la nuova campagna di Amref sul tema.
Lista di lettura:
Nizza, la nuova città giardino del Mediterraneo. Enrico Ratto per Domus.
Idrogeno, politiche verdi e lobby europee. Un ottimo dossier su Irpimedia.
La copertina del nuovo Internazionale è dedicata alla ‘paleoclimatologia’. Se capiti in edicola, compralo.
Pipistrelli ed epidemie, un bel lavoro visuale di Reuters.
E infine.
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