La crisi del grano, spiegata bene
🌍 Il colore verde #109: Russia e Ucraina esportavano più di del 25% del grano globale. La guerra causa un livello di insicurezza alimentare senza precedenti.
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💚Ciao, piacere e grazie! Ieri ho partecipato a un incontro dedicato al clima al festival di LectorInScienza di Conversano, e domenica scorsa ho presentato il podcast al Salone del libro di Torino. Grazie a chi è venuto, a chi ho conosciuto e chi conoscevo già. Grazie alle persone con cui ho condiviso il palco (Marco Motta, Marica Di Pierri, Stefano Caserini ieri; Daniele Scaglione la scorsa settimana). Sono incontri che fanno stare bene. E si impara tanto.
Ok, partiamo.
Dopo la pandemia, dopo la guerra, ora la fame. La notizia è nota: a causa dell’invasione russa, il grano ucraino è fermo nei silos del porto di Odessa e non può essere esportato verso quei Paesi che ne facevano grande affidamento per la produzione di cibo. L’Ucraina, infatti, è un enorme esportatore di grano, così come di olio di semi e vari tipi di cereale.
Non è un caso che la bandiera ucraina sia gialla e blu. Per capirne il motivo basta vedere la foto qui sopra, scattata nel luglio 2020 in un campo appena mietuto a Zaporizhzhia, regione nel sud est del Paese che ormai abbiamo imparato a conoscere a causa dell’offensiva russa. Il giallo rappresenta i campi di grano, l’azzurro il cielo oltre l’orizzonte.
Quanto è grave la crisi del grano ucraino? E com’è possibile che gli effetti della guerra in un Paese minaccino a tal punto la sicurezza alimentare globale?
Oggi affronto il tema e provo a intrecciarlo con il motivo per cui siamo qui ogni sabato, ovvero la crisi climatica. Ahinoi, il climate change è come il maggiordomo nei gialli: c’entra sempre. La dico più formalmente: il cambiamento climatico è un moltiplicatore di vulnerabilità.
Fino all’anno scorso, Russia e Ucraina esportavano così tante materie prime da supplire al 12% del consumo calorico globale. Due Paesi, un decimo della dieta del mondo. Insieme i due Paesi esportavano il 29% dell’orzo commerciato in tutto il mondo, il 28% del grano, il 15% del granoturco. E il 75% dell’olio di girasole.
L’export ucraino è interrotto dal primo giorno di guerra. Primo perché il territorio è devastato dai bombardamenti: sono stati colpiti i campi coltivati, gli stock di fertilizzante, allevamenti e infrastrutture idriche. Quest’anno si coltiverà almeno il 30% in meno dei cereali del 2021. E secondo perché ciò che si è prodotto non riesce a uscire dal Paese. Fino a pochi mesi fa il 98% delle materie prime alimentari usciva via mare, dirette verso il Nord Africa e il Medio Oriente. Ma oggi i porti sono bloccati. Il più importante è il porto di Odessa: le sue acque sono piene di mine piazzate dall’esercito ucraino. I silos attorno al porto da mesi sono pieni. Almeno 25 milioni di tonnellate di grano e mais raccolte a fine del 2021.
E ora che si avvicina il periodo di nuovi raccolti di inizio estate la situazione si fa ancora più critica: senza le infrastrutture libere per stoccare i cereali, il rischio è che molti prodotti marciscano.
La diplomazia internazionale (e Draghi è in prima linea) sta provando a negoziare un corridoio marino per far uscire il grano da Odessa, ma lo stallo continua. Gli ucraini non sembrano intenzionati a sminare il Mar Nero, per paura di un attacco anfibio a sorpresa, e i russi non vogliono interrompere la loro offensiva sull’est e il sud del Paese e far arrivare navi occidentali in ucraina. Nessuno si fida.
Ma anche davanti a una possibile tregua russa, i problemi non svanirebbero all’istante: minare le acque è facile, sminare è molto più difficile.
Se le esportazioni ucraine sono ferme, anche quelle russe non se la passano benissimo, a causa delle sanzioni occidentali. Le sanzioni economico-finanziarie non colpiscono direttamente il mercato delle materie prime alimentari, ma lo scenario di guerra rallenta, complica e rende poco opportuni gli affari con i fornitori russi.
Il cibo si è trasformato in un’arma. Secondo la Fao 50 Paesi dipendono almeno al 30% dal grano russo e ucraino; e 26 ben oltre il 50%. Sono dati impressionanti, che fotografano uno scenario poco conosciuto: nel mondo quattro Paesi su cinque importano più cibo di quanto esportano. In altre parole, il tanto cibo che consumiamo viene prodotto in pochi posti. Come scrive oggi Carlo Petrini su La Stampa, “la sovranità alimentare non esiste più da decenni”.
È anche per questo motivo che oggi fatichiamo a trovare una soluzione rapida alla crisi del grano ucraino. Il direttore del World Food Programme, David Beasley, già a febbraio aveva detto: “Se non affrontiamo subito la questione, nei prossimi nove mesi vedremo carestie, destabilizzazioni nazionali e migrazioni di massa”. 115 milioni di persone dipendono dal grano ucraino.
Proprio come le forniture di gas russo, è difficile sostituire da un giorno all’altro le materie alimentari di Mosca e Kiev. Anche perché coltivare grano non è esattamente redditizio, anzi. Per almeno tre fattori: la volatilità dei prezzi, dettata proprio dall’incertezze di questi ultimi anni post-pandemici e dell’inflazione; il costo dell’energia crescente; la resa scostante dei raccolti. Molti agricoltori, scoraggiati dai margini di guadagno sempre più basso, convertono i propri campi in colture per mangimi o per produrre bio-carburanti: costano meno, rendono di più.
Non solo: sempre più Stati, spaventati dalla situazione, stanno vietando le esportazioni, in un’ondata di vero e proprio protezionismo applicato ai cereali. India, Cina, Kazakistan, Kuwait: sono 23 i Paesi che hanno applicato nuove restrizioni, bloccando l’equivalente del 15% delle calorie commerciate nel mondo.
Le enormi ripercussioni economico-sociali ricadono, come sempre, sui Paesi più poveri, dove il costo del cibo incide per più di un quarto del reddito e buona parte della dieta si basa proprio sul pane. Come in Egitto, fortemente dipendente dalla fornitura ucraina e dove il 40% del reddito va consumato per l’alimentazione.
Come dicevo, in tutto questo il climate change ci va giù pesante. L’India ha vietato l’export di grano proprio per far fronte alla crisi interna dovuta al caldo estremo che ha colpito i raccolti e ne diminuirà la resa. La Cina ha rivisto le stime dei suoi raccolti dopo che negli scorsi mesi ha piovuto troppo poco. La siccità colpisce il Corno d’Africa, ma anche l’Europa e l’America. E dove invece continua a piovere, più spesso la pioggia si trasforma in tempeste, uragani e alluvioni. Nell’era del caos climatico, l’agricoltura è il primo settore a essere colpito.
Tutto questo quadro, drammatico e sconsolato, allarga sempre di più l’insicurezza alimentare globale. Siamo sempre più lontani dal risolvere il problema della malnutrizione, nonostante la lotta alla fame nel mondo sia uno dei punti saldi degli obiettivi internazionali di sviluppo, e il diritto al cibo sia un diritto sancito dalle Nazioni unite. Dal 2015 sale ogni anno il numero di persone che vive in situazione di insicurezza alimentare, ovvero che rischia di non avere accesso a una quantità sufficiente e costante di cibo sano. Nel 2020 secondo la Fao erano più di 800 milioni, ma quest’anno si rischia di superare il miliardo. Una persona su otto.
È colpa di Putin, oggi più che mai. Ha scelto di distruggere la vita a milioni di ucraini e peggiorare l’esistenza a gran parte del mondo. Ma non è solo responsabilità sua. Perché quando si parla di insicurezza alimentare dobbiamo fare i conti con uno scenario globale figlio di tanti problemi e complessità.
Mai come in questi ultimi anni l’umanità ha prodotto così tanto cibo, direttamente per noi o per il bestiame che poi diventerà a sua volta alimento. C’è un dato micidiale con cui dobbiamo fare i conti. Con tutto il cibo prodotto nel mondo saremmo in grado di sfamare in media una popolazione di 10 miliardi di persone. Due miliardi in più di quanti abitano il pianeta ora. Se sfruttassimo al meglio il nostro cibo, non ci sarebbe insicurezza alimentare né crisi delle materie prime. E invece lo usiamo male. Non lo condividiamo. Lo sprechiamo. Lo trasformiamo in un’arma per combattere le guerre e logorare il mondo.
📰 I link
• Notizie che non possiamo perderci: Oxfam ha pubblicato il suo nuovo report sulle richezze e le diseguaglianze del mondo. Dopo la pandemia, 573 persone sono entrate nel club dei miliardari. 263 milioni rischiano la povertà estrema. (Lifegate)
• Sono stati annunciati i vincitori del Golman prize, considerato il “Nobel per l’ambiente”. Qui le loro storie: sono i pionieri del domani.
• Le storie di tre persone che fino poco fa lavoravano nelle grandi aziende petrolifere e hanno deciso di licenziarsi perché non accettano più di essere complici di un sistema così inquinante (Guardian)
• Il New York Times, raccogliendo le parole di Al Gore, mette in comune due fonti di estremo rischio per i giovani di oggi in America: cambiamento climatico e violenza delle armi. Se mancano soluzioni per questi due problemi c’è un solo motivo: l’inazione politica.
• La gestione del verde urbano è anche una questione di salute mentale (Linkiesta)
• Ho raccontato la storia di una comunità di donne guatemalteca che coltiva caffé sfidando la violenza e i cambiamenti climatici. (Green&Blue)
• Per insegnanti, ma non solo: all’interno del progetto “Area di Scienze” di Zanichelli ho scritto un articolo proprio sulla sicurezza alimentare, che prende l’argomento e lo mette in una prospettiva meno legata all’attualità e più universale.
👇 La foto più bella
Marcella Giulia Pace, astrofotografa e insegnante italiana, ha immortalato i tanti colori della Luna. Ci ha messo 10 anni, e questo è il risultato combinato in un’unica immagine.
💌 Per supportarmi
Se ancora non mi conosci, ciao! Sono Nicolas Lozito, friulano, 31 anni. Sono un giornalista e lavoro a La Stampa. Curo questa newsletter da marzo 2020. Esce ogni sabato e nel 2021 ha vinto un premio, assegnato dal Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici e Radio 3 Scienza. Il colore verde ha anche un bosco di 100 alberi in Guatemala, piantato da ZeroCO2: trovi la sua storia e i suoi dati qui.
L’anno scorso ho fatto un podcast: Climateers, sulle pioniere e i pionieri dell’ambientalismo, che quest’anno è ripartito con un altro nome, Cambiamenti. Lo trovi su tutte le piattaforme.
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Grazie per questa importante puntata. L'ultima volta che ci sono stati rincari del grano in Africa abbiamo assistito alla Primavera Araba. Mi chiedo cosa preannunci sul piano politico questa nuova ondata di aumenti...