Insostenibile moda e insostenibilissimo fast fashion
🌍 Il colore verde #192 Un'inchiesta di Greenpeace svela l'impatto ambientale dei resi online gratuiti: fanno il giro del mondo anche per 10.000 chilometri
Ciaooo! Oggi abbiamo un sacco di cose da raccontarti, quindi partiamo senza indugi!
Questa newsletter arriva a 6.330 persone. +40 rispetto l’ultima puntata
Passa parola per farci arrivare a 10 mila entro giugno
Comunicazione di servizio: ad aprile torna il mio corso “Progettare una newsletter” per la Scuola Holden. 5 lezioni da due ore, sabato mattina, in diretta online. Codice sconto ILCOLOREVERDE. È arrivato alla 5ª edizione. Nelle settimane di avvicinamento ti presento un po’ di newsletter nate dopo le vecchie edizioni, come
di Marcello Conti.Oggi a cura di
Premessa: gli scienziati che studiano il cambiamento climatico negli ultimi anni hanno individuato una serie di tipping points, “punti critici” o “punti di non ritorno”. Una volta superati, gli effetti del climate change accelerano e portano a una inevitabile e profonda serie di trasformazioni. Un ciclo che si auto-alimenta e di cui nessuno conosce gli esiti. Questa settimana, la comunità scientifica ci ha avvisato in tre occasioni diverse che li stiamo oltrepassando. Li scopriamo nelle nostre prime tre notizie.
🕰️ Stiamo per… far collassare le correnti oceaniche
Partiamo dall’Amoc, l’Atlantic Meridional Overturning Circulation, ovvero una vasta rete di correnti nell'Oceano Atlantico. Questo sistema comprende parte della Corrente del Golfo e altre correnti ed è fondamentale per trasportare calore (il clima mite dell’Europa è in buona parte dovuto all’Amoc), carbonio e nutrienti dalle regioni tropicali verso il Circolo Polare Artico. È come la caldaia di un condominio, produce acqua calda che sale ai piani alti e torna indietro più fredda, per essere nuovamente scaldata. Secondo nuovi studi, la potenza della rete di correnti dell’Oceano Atlantico si sta indebolendo a causa dello scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia e dei ghiacci dell’Artico.
Cosa c’è dopo il tipping point? Innalzamento del livello del mare, inversioni stagionali in Amazzonia, variazioni più estreme delle temperature e cambiamenti climatici rapidi e irreversibili. Porterebbe anche temperature più basse in alcune zone, come l’Europa. Sembra una contraddizione, ma non lo è.
→ Ripassino video per capire come funzionano le correnti oceaniche. Spiegato con le paperelle 🛁
🐢 Stiamo per… sterminare diverse specie migratorie
Non se la passano ben neanche gli animali. Il primo monitoraggio globale dell’Onu sulle specie migratorie mostra che una specie su cinque (fra le 1.189 che necesiterebbero protezione) è sull’orlo dell’estinzione. Tra le più a rischio ci sono i pesci (97% a rischio estinzione) e le tartarughe (43%).
🌳 E stiamo per… trasformare l’Amazzonia in una prateria
Si avvicina al suo punto critico anche la casa di un decimo delle specie animali del mondo. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature, entro 26 anni una porzione tra il 10% e il 47% dell’Amazzonia potrebbe essere esposta a gravi fattori di disturbo che rischiano di trasformare ampie porzioni della foresta in steppa arida.
Gli esperti hanno iniziato a parlare regolarmente di punti critici climatici nei primi anni Duemila. Da quel momento ne hanno elencati un bel po’, alcuni vicini, altri più lontani. Qui trovi l’elenco completo.
🛢️ Le enormi perdite di metano delle discariche
In quattro anni ci sono state 1.256 fughe di metano (CH₄) dalle discariche di tutto il globo. Il Guardian ha individuato in Asia, Argentina e Spagna le fuoriuscite di gas più gravi. Questo gas serra – spesso chiamato semplicemente “gas naturale” – intrappola 86 volte più calore in atmosfera di quanto possa fare l’anidride carbonica (nell’arco di 20 anni) ed è responsabile di un terzo del riscaldamento globale.
L’evento peggiore si è verificato nell'aprile 2022 a Delhi, quando sono state riversate in atmosfera 434 tonnellate di CH₄ all’ora. È quanto emettono 68 milioni di automobili a benzina.
Ancora metano ma non dalle discariche. La BBC ha individuato in Kazakistan una delle peggiori fughe mai registrate: 127.000 tonnellate di CH₄ rilasciate in atmosfera a causa di un incendio iniziato nel giugno 2023 e durato sei mesi.
Individuare l’origine delle fughe di gas naturale è possibile grazie ai dati satellitari: a marzo l’organizzazione Environmental Defense Fund, con il supporto di Google, lancerà nello spazio MethaneSAT, un satellite che mapperà, misurerà e traccerà le emissioni di metano nell’atmosfera. Verrà usata anche l’intelligenza artificiale per rendere le analisi ancora più accurate. “A security camera for the Planet”, come il New Yorker ha definito il progetto.
🗣️ È iniziato il processo “La giusta causa” contro Eni
Ieri, venerdì 16 febbraio, c’è stata la prima udienza della causa civile intentata dalle associazioni ambientaliste Greenpeace Italia e ReCommon, insieme ad alcuni cittadini, contro il colosso italiano dell’industria energetica Eni.
Siamo davvero agli inizi. L’azienda ha presentato due relazioni tecniche redatte dai consulenti Carlo Stagnaro e Stefano Consonni. Gli ambientalisti hanno risposto con un report in cui ricostruiscono le posizioni dei tecnici e sostengono come non possano essere considerati consulenti “indipendenti”.
Il giudice avrà trenta giorni per decidere se aprire l’istruttoria, quella fase del processo in cui vengono sentiti i testimoni e si raccolgono informazioni utili. Alessandro Gariglio, legale di Greenpeace, ha spiegato a Open che, se gli elementi presentati finora dovessero essere ritenuti sufficienti, «la sentenza potrebbe arrivare a fine 2024. Se invece viene disposta la consulenza d’ufficio, i tempi si dilateranno».
#LaGiustaCausa è la prima causa civile sul clima in Italia (climate litigation) nei confronti di un’azienda. Immaginala come una serie con tante stagioni. Se ti sei perso o persa l’inizio, torna indietro alla prima puntata.
La metà delle tempeste di categoria 5 tra il 1980 e il 2021 si è verificata negli ultimi 17 anni e le cinque più violente sono concentrate negli ultimi 9 anni. Sulla proposta non ha incontrato il favore di chi pensa che l’introduzione della “categoria 6” potrebbe influenzare il modo in cui la popolazione percepisce il rischio, facendo sottostimare gli altri livelli di classificazione comunque pericolosi.
I resi del fast fashion: migliaia di chilometri per finire nel nulla
Fino a poche settimane fa non avevo mai fatto un reso online. Ho scoperto che non serve pagare le spedizioni, andare in posta, fare la fila e tutto il resto. Basta un click ed è tutto automatizzato e gratuito. (Ho mandato indietro una fotocamera per bambini a forma di coccodrillo, mi è arrivata non so come al posto del celebre videogioco di calcio).
A differenza mia, moltissime persone sono abituate ormai a fare resi, forse anche tu. Online, ma anche nel mondo reale. È un sacrosanto diritto per i consumatori, che però si può trasformare in un abuso dall’enorme impatto ambientale. Soprattutto quando si parla di moda, e in particolare del fast fashion.
Fast fashion è il nome che abbiamo dato alla moda a basso prezzo ormai diffusa ovunque. Quella delle catene dei centri commerciali; ma anche dei colossi online, come il cinese cinese Shein che ha costretto a coniare un nuovo termine: ultra fast fashion. Il fast fashion costa poco, muta spesso e ci convince ad acquisti compulsivi. Portiamo così a casa una valangata di schifezze. E quando sbagliamo l’ordine, possiamo fare un bel reso e passa la paura.
Negli ultimi due decenni è raddoppiato il consumo di prodotti tessili nel mondo, anche se il 60% dei vestiti finisce in discarica in meno di un anno dalla fabbricazione. L’industria genera tra il 5 e il 10% delle emissioni globali di gas serra.
Arrivo alla notizia: Greenpeace Italia, insieme alla redazione di Report, ha mostrato i risultati di un’inchiesta sui resi. Il team italiano dell’associazione ha acquistato 24 capi d’abbigliamento da Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, Ovs, Shein e Asos; per poi immediatamente chiedere il reso. Prima di rispedire il pacco ha inserito un localizzatore Gps in ogni vestito, così da tracciarne gli spostamenti, scoprire il mezzo di trasporto usato e comprendere i passaggi nella filiera.
In 58 giorni, i pacchi hanno percorso nel complesso circa 100 mila chilometri attraverso 13 Paesi europei e la Cina. La distanza media percorsa dai prodotti per consegna e reso è stata di 4.502 km. Il tragitto più breve è stato di 1.147 km, il più lungo di 10.297 km. Il mezzo di trasporto più usato è risultato il camion, seguito da aereo, furgone e nave. I 24 capi di abbigliamento sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte, con una media di 1,7 vendite per abito, e resi per ben 29 volte. A oggi, 14 indumenti su 24 (pari al 58%) non sono ancora stati rivenduti.
Asos, Zalando, H&M e Amazon sono in cima alla classifica per numero medio di rivendite: 2,25 volte. Mentre il 100% dei capi resi a Temu, Ovs e Shein non è ancora stato rivenduto.
Giuseppe Ungherese, a capo della campagna Inquinamento di Greenpeace, che più volte ha aiutato Il colore verde a decifrare le questioni ambientali, spiega:
«L’indagine mostra come il fast fashion generi impatti ambientali nascosti ma molto rilevanti. Mentre alcune nazioni europee hanno già legiferato per arginare o evitare il ricorso alla distruzione dei capi d’abbigliamento che vengono resi al venditore, lo stesso non può dirsi per la pratica dei resi facilitati, che incoraggia l’acquisto compulsivo di vestiti usa e getta, con gravi conseguenze per il pianeta».
Greenpeace ha calcolato il ruolo dei resi sulle emissioni di un singolo capo di abbigliamento: si aggira in un +24% medio (calcolato su un paio di jeans). Ma ovviamente oltre al dato numerico, è importante comprendere le profonde ramificazioni dell’impatto del fast fashion sul sistema produttivo e sull’ambiente. Inquinamento, diseguaglianze globali, manodopera a bassissimo costo che lavora in situazioni di scarsa sicurezza, materiali di bassa qualità.
→ Sulla notizia Federica ha fatto un video per Sky su Tiktok
La docu-serie Junk, creata da Sky e Will media, racconta in sei episodi le sfaccettature dell’industria tessile globale, dal Cile al Veneto. Nell’ultima puntata Matteo Ward, autore del progetto, offre alcune possibili soluzioni (riassunte anche in questa guida): il primo passo è far sì che i nostri abiti abbiano una vita più lunga. L’anno scorso, poi, un gruppo di produttori italiani ha formato il Movimento moda responsabile, pubblicando un manifesto in quattro punti.
Per chiudere la puntata ho chiesto aiuto a Silvia Gambi, un faro nella notte quando si parla di questi argomenti. È l’autrice di Solo moda sostenibile, un podcast e una newsletter imprescindibili, e ha collaborato al documentario Stracci (su Prime). Le ho domandato quali fossero altri aspetti poco conosciuti del fast fashion, oltre al meccanismo dei resi. Mi ha risposto elencandomene quattro:
1. Gli abiti sono fatti con fibre miste, difficili da dividere e da riciclare.
Il loro valore è così basso che nessuno si prende la briga di pensare a una seconda vita di questi capi.2. Molte catene fanno raccolta degli abiti usati in negozio, ma hanno una bassa percentuale di riciclo.
È troppo costoso fare la selezione e trovare la soluzione giusta. Quella raccolta è solo un’azione di marketing per distribuire buoni sconto da spendere in negozio.3. Per la produzione dei capi si affidano a soggetti che gestiscono per loro il processo, ma hanno difficoltà a mappare la filiera.
Non sono quindi in grado di garantire se ai lavoratori non viene corrisposto il salario minimo.4. Circa un terzo di quello che producono non viene venduto, e resta nei magazzini, aspettando di capire cosa farne.
Il loro modello di business si basa sul continuo rinnovamento della proposta in negozio, ma non riescono a vendere tutto quello che producono.
Sezione dal titolo assurdo, se l’è inventata Federica e la cura lei. Pillole di green tech: app, strumenti, siti, calcolatori per fare i sapientoni all’aperitivo o migliorare la nostra vita.
Sblind, il sustainable network
Il tempo passato online può avere un valore, anche per l’ambiente. Da qualche mese una start up italiana ha lanciato Sblind, un nuovo social network il cui impatto ambientale è diminuito grazie alle compensazioni di carbonio. Ma non è l’unica novità di quello che il ceo Francesco Bertuletti ha ribattezzato un “sustainable network”. Lo avevo intervistato per Sky TG24 a dicembre.
Non ti spoilero altro, vai tu a dare un’occhiata e fammi sapere che ne pensi.
Una sezione dedicata alla comunità, condividiamo le nostre storie.
Lanciare semi con i figli
Il messaggio che ci ha scritto Ettore Greco, docente e membro di Teachers for future non è solo un dono per il Pianeta, ma è anche un manifesto. «Stiamo cucinando solo ad induzione e forno. Riscaldamento con pompe di calore. Camminiamo sempre, appena su può fare. Mangio le verdure del contadino che viene dai castelli romani, la carne solo la domenica. Acqua da rubinetto. Scrivo ed insegno del riscaldamento climatico. Partecipo agli scioperi sul clima. Pianto alberi con Ecosia (Ecosia è un motore di ricerca “verde”). Sostengono le associazioni green. Compro i semi di fiori di campo e li lanciamo nei parchi con mia figlia». Grazie Ettore: lanciamo semi in tutti parchi del mondo.
Qual è il tuo dono per la Terra? Scrivi nei commenti o rispondi nella mail per raccontarci il tuo gesto per l’ambiente. Vale tutto, anche le cose più strane.
Cosa ci è piaciuto questa settimana: articoli, podcast, video, libri.
Cosa possiamo imparare dalla siccità di Barcellona
Una bella puntata della newsletter
Si possono costruire pannelli solari senza danneggiare il paesaggio?
Negli Stati Uniti qualcuno sta esplorando soluzioni concrete per promuovere le energie rinnovabili e proteggere la biodiversità.
Il cambiamento climatico non fa ridere. O forse sì?
La storia di chi fa climate comedy raccontata dal NY Times.
La vera storia di Free Willy e delle altre orche in cattività
Avviso: farà piangere i bimbi e le bimbe degli anni ‘90.
Una foto che sarebbe da incorniciare. Un gruppo di ranger kenyani scappano dopo aver rianimato un rinoceronte nero che stava morendo soffocato (nessuno si è fatto male). Il fotoreportage completo è qui.
Se sei qui, vuol dire che Il colore verde ti piace davvero e ti è utile. La newsletter è nata nel marzo 2020 e la curo io, Nicolas Lozito, friulano, 33 anni. Sono un giornalista e lavoro a La Stampa.
Da febbraio 2024 Federica De Lillis collabora con me. Giornalista romana, ora vive a Milano e lavora per Sky Tg24. I suoi focus: nuove generazioni, diritti e digitale.
La comunità de Il colore verde ha un bosco di 250 alberi in Guatemala, piantato da ZeroCO₂: trovi la sua storia qui. Se vuoi adottare un albero anche tu da ZeroCO₂, usa il codice ILCOLOREVERDE per uno sconto del 30%.
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Puntata super! Mi piace parecchio il nuovo formato grafico.
Grazie per la menzione, splendido lavoro come sempre (appena inoltrato alle mie amiche malate di resi!) :)