Fare causa all’Italia, per il clima
🌍 Il colore verde #60: La prima causa climatica contro lo Stato. 203 ricorrenti chiedono ai giudici di imporre allo Stato una riduzione del 96% delle emissioni
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Puntata più lunga del solito, metto le mani avanti. So che è quasi iniziata l’estate e ci sono cose migliori da fare, però il tema di oggi mi sta a cuore e ha bisogno di qualche parola in più ✌️😏
Ahh… e già che ci sono, hai ascoltato il quarto episodio del mio podcast su Robert Fitzroy? Qui su Spotify, se lo vuoi sulle altre piattaforme cerca “Climateers”.
Sono successe due cose interessanti negli ultimi sette giorni qui in Italia: mercoledì il Senato ha votato a larga maggioranza un disegno di legge per inserire la tutela dell’ambiente in Costituzione. Si tratta di un nuovo comma all’articolo 9, che fissa nella Carta il principio per cui «La Repubblica tutela l'ambiente e l'ecosistema, protegge la biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile anche nell'interesse delle future generazioni». È stato definito da molti un “momento storico”: ci vorranno però almeno altri 3 passaggi parlamentari a maggioranza qualificata perché la Costituzione sia effettivamente aggiornata.
Si può parlare di momento storico anche per ciò che è successo sabato scorso, quando 203 soggetti, tra associazioni e privati cittadini hanno presentato una causa contro lo Stato italiano per “inazione climatica”. La prima in assoluto nel nostro Paese, ma che segue il solco di numerose cause in almeno 40 Stati in tutto il mondo.
Sintetizzando la questione: si chiede alla giustizia italiana di arrivare dove, al momento, non arriva la politica. L’Italia non sta facendo abbastanza per contrastare il cambiamento climatico e ciò mette in serio pericolo le future generazioni: un clima stabile e un ambiente sicuro devono essere un diritto umano inalienabile.
I ricorrenti chiedono che lo Stato venga dichiarato inadempiente rispetto all’azione climatica e che gli venga imposta una drastica riduzione delle emissioni di gas serra.
Secondo l’attuale scenario, infatti, l’Italia nel 2030 avrà ridotto le proprie emissioni solo del 26% rispetto al livello del 1990, senza riuscire a rispettare piani nazionali e accordi internazionali. La causa punta a una riduzione del 92% entro la fine del decennio. Non una percentuale a caso: è stata calcolata da un ente indipendente, Climate Analytics.
I 203 soggetti – 24 sono associazioni, 17 minori e 162 adulti – sono seguiti da un team legale composto da avvocati e docenti universitari, fondatori della rete di giuristi Legalità per il clima. Mentre a guidare la campagna promotrice della causa, chiamata Giudizio universale, c’è l’associazione A Sud, che da anni si batte per la giustizia climatica.
Ho intervistato la loro portavoce Marica Di Pierri, bandiera del movimento e curatrice del libro “La causa del secolo” appena uscito in libreria (ed. Round Robin), nonché direttrice del Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali di Roma.
La prima domanda che faccio a Marica parte da un dato di fatto: siamo il Paese con la più lenta giustizia civile di tutta Europa – 7 anni e tre mesi in media per un processo.
Che senso ha fare una causa oggi sulle emissioni da ridurre entro il 2030, se la sentenza potrebbe arrivare appena nel 2028? È solo una causa simbolica?
«È vero che i tempi sono biblici, e noi abbiamo presentato la causa proprio al Tribunale civile di Roma, che di tutti è tra i più ingolfati. Ma non è affatto una causa simbolica: l’obiettivo è ottenere una sentenza di accoglimento delle nostre richieste, e speriamo che l’interesse del tema e la pressione politica e pubblica accelerino il processo». (C’è anche una petizione online: si firma qui)
Ma che succede se perdete?
«Non è una questione che ci stiamo ponendo. La causa è innovativa, anzi, pionieristica, ma l’architettura dietro di essa è solida, così come i dati su cui si basa. Siamo il sesto Paese al mondo per vittime da eventi meteorologici estremi: il climate change in Italia, inoltre, aumenta il rischio di siccità, desertificazione e innalzamento dei mari. La debole svolta verde del Pnrr del governo dimostra che siamo ancora molto indietro».
I precedenti internazionali per cause simili sono in gran parte a favore dei ricorrenti. In Germania il 29 aprile scorso la Corte Costituzionale ha dichiarato insufficiente e incostituzionale una legge del 2019 sul cambiamento climatico, costringendo il governo a riscriverla. È successa una cosa simile nei Paesi Bassi, dove si è tenuto il caso “Urgenda”, il primo al mondo a portare a una condanna di uno Stato. Sei giovani portoghesi stanno portando avanti una causa alla Corte europea dei diritti umani contro 33 Stati. In Australia sono aperte almeno 200 cause legate al climate change e negli USA altre 1200.
Proprio negli States, però, i giudici hanno respinto alcune denunce sostenendo che le corti non possono decidere le politiche climatiche, ruolo che spetta a governi locali o nazionali. La vostra causa rischia una simile sorte?
«No: noi chiediamo ai giudici di imporre un “quanto” non un “come”. La nostra associazione, come le altre realtà che promuovono la campagna Giudizio Universale, ha idee precise su come raggiungere l’abbattimento delle emissioni, ma nella causa chiediamo solo che allo Stato venga imposta la percentuale di riduzione, senza entrare nel merito degli strumenti per farlo».
Due settimane fa la compagnia petrolifera Shell è stata condannata da una corte olandese – in primo grado – a ridurre del 45% le proprie emissioni di gas serra. Perché voi avete scelto lo Stato invece che una compagnia energetica o ricchi soggetti privati che hanno un alto impatto ambientale?
«Noi partiamo dallo Stato perché è il primo attore che ha precise responsabilità nei confronti dei cittadini e ha il dovere di varare politiche climatiche nazionali ambiziose ed efficaci. Ma esistono almeno altre due categorie rilevanti di contenzioso: la prima è rappresentata dalle “climate litigation” contro le imprese, che cercano di imporre obblighi più stringenti alle aziende che hanno maggiore ruolo nell’emergenza climatica. Su questo fronte, la sentenza contro Shell è il primo esempio di condanna giudiziaria, ed è un passo enorme e fondamentale. Ci sono poi i ricorsi per incompatibilità climatica rispetto a progetti specifici, come sta succedendo da noi con il progetto del gasdotto Tap o come è successo a Londra, dove un tribunale ha vietato il progetto di espansione dell’aeroporto di Heathrow perché in conflitto con gli Accordi di Parigi del 2015».
L’ultima riflessione: i giovani ambientaliste e ambientalisti d’ora in poi dovranno tutti laurearsi in legge?
«Non necessariamente. Però sempre di più le battaglie per il clima hanno anche una declinazione legale e giuridica. Sempre più la questione del climate change abbraccia gli aspetti dei diritti e della giustizia. Le competenze dei giovani devono rimanere trasversali: scienze "dure", scienze sociali, politica, legge, sono tasselli importanti e solo unendo tutte queste forze potranno arrivare i risultati».
E tu, che ne pensi? Era un tema che avevi già affrontato? Credi che la via legale sia una valida azione per il clima? Fammi sapere!
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