🌍 Carlo Ghiglietti: Falla circolare
🌍 Il colore verde #28: Carlo Ghiglietti, consulente aziendale, spiega i principi guida dell'economia circolare
Un’espressione che hai sentito mille volte: economia circolare. Va di moda, ma di cosa parliamo esattamente quando parliamo di economia circolare? Cosa è fuffa e cosa è concreto?
Per rispondere mi son fatto aiutare da Carlo Ghiglietti, lombardo classe 1966, consulente tecnico che si occupa da decenni di sostenibilità aziendale e da quest’anno ha fondato la sua società di consulenza – .zeroenvironment – per le aziende che vogliono diventare “circolari”.
Parte dagli esempi concreti, aziende italiane che lui con passione ha deciso di raccontare in un podcast: «ReCO2 crea “mattonelle” per l'edilizia dagli scarti di vetro, acciaio e ceramica. GoodsMood, startup di moda sostenibile, non produce rifiuti e ha una linea di vestiti in fibra di legno. Origami crea morbidi abiti per neonati usando cotone organico e “fibra di latte” da scarti caseari».
L’economia circolare non è un pensiero astratto. «Né un semplice processo di riciclo dei rifiuti», puntualizza lui. L’azienda “circolare” decide di assumersi la responsabilità del prodotto dall’inizio alla fine – e poi da un nuovo inizio. «Si usa un’espressione: non più “dalla culla alla tomba” di un prodotto, ma “dalla culla alla culla”».
Per Carlo – che si confronta con un’Italia fatta soprattutto di piccole e medie imprese – significa individuare i “punti ciechi”, quelle fasi della produzione che generano scarti e rifiuti che sembrano inutilizzabili. «Quando mi avvicino alle aziende non voglio rivoluzionare la loro gestione: spesso hanno già delle buone pratiche di sostenibilità. Mi aggancio a quelle piccole cose e cerco di propagare la nuova visione».
Il cambio di mentalità è decisivo: «devono capire che il loro scarto spesso può essere un “sottoprodotto”», un vantaggio per l’ambiente e anche economico in certi casi. Può essere riutilizzato nell’azienda stessa ma anche spostato in un’altra filiera. «Ma ancora poche aziende italiane si affidano alla normativa italiana dei “sottoprodotti” del 2018, che favorisce la circolarità. Hanno paura di sbagliare, o non sanno come cambiare comportamento».
Economia circolare e sostenibilità non sono parole equivalenti. Per alcuni l’economia circolare non è un cambio sufficientemente sistemico per ridimensionare il nostro impatto su natura e emissioni. Per altri, invece, è solo un’etichetta usata con furbizia. Ecco che si parla del famigerato “green washing”, quando un’azienda comunica un comportamento virtuoso, ma ne nasconde altri che fanno molti più danni.
Chiedo a Carlo che strumenti abbiamo per difenderci. «Per ora pochi, se non il nostro buon senso. Ma in futuro nell’Unione europea arriveranno etichette che includeranno il Life-cycle Assestment, la valutazione del ciclo di vita di un prodotto: ci diranno quanta CO2 emettono i diversi prodotti nella loro intera vita. Il produttore diventerà responsabile in maniera estesa del prodotto: dalla produzione, al suo servizio, e al suo “fine vita”».
Nel frattempo l’economia circolare guadagna terreno in Italia: un report entusiasta di SYMBOLA dice che il nostro Paese è il terzo in Ue per eco-efficienza aziendale, e gli investimenti nella circolarità sono saliti del 21,5% nel 2019.
Anche Carlo è fiducioso, ma crede che il sistema non sia ancora maturo. In Italia non ci sono incentivi di tassazione, per esempio, gli esperimenti sono sempre locali e non tutti gli standard sono chiari. «Siamo creativi, ma ancora poco uniti». Eppure i bandi e i fondi europei – anche il NextGenerationEu, che comprende il tanto discusso recovery plan – premiano solo o soprattutto le aziende circolari. «In futuro non ci sarà altra economia diversa da quella circolare: le aziende devono pianificare ora il cambiamento».
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