

Discover more from Il colore verde
Cop27, il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto
🌍 Il colore verde #132: Con più di un giorno di ritardo i Paesi hanno trovato un accordo a Cop27. Sì al fondo loss and damage, no alla riduzione delle fonti fossili
DI DOMENICA!
Buongiorno! Scusa il ritardo, ho atteso il risultato dei negoziati di Cop, che sono andati per le lunghissime e si son chiusi appena stamattina.
La scorsa settimana ho chiesto se va bene questo nuovo formato con più notizie: il 96% di chi ha risposto ha detto sì. Per anni la newsletter è stata monotematica, ma sono felice che questo schema sia più utile a chi legge: piace molto anche a me.
Approfitto per una nuova domanda, legata all’orario di invio del sabato (oggi è un’eccezione assoluta). Ti farebbe piacere/comodo ricevere di prima mattina la newsletter? Ci sono edizioni in cui faccio parecchie modifiche o aggiunte dell’ultimo momento, e quindi ritardo l’invio oltre le 11. Vorrei capire se faccio male o se va bene lo stesso.
Via con il menù:
🌡️ Cop flop? In Egitto non è andata benissimo, ma c’è stata anche una rivoluzione storica
👪 Siamo 8 miliardi, ma il problema del Pianeta non è la sovrappopolazione
🧑🏫 Il prof che si è dimesso per i finanziamenti di Eni all’Università
📦 La “falsantropia” di Bezos e la settimana del Black friday
🌡️ Cop27, il bicchiere è mezzo…
Dopo due settimane di negoziati, i 200 Paesi e organizzazioni internazionali che partecipavano alla Cop di Sharm el-Sheikh hanno trovato un accordo unanime. Ci sono voluti i tempi supplementari: la conferenza doveva chiudersi venerdì, ma come succede sempre più spesso alle Cop si è dovuti andare lunghi. Mentre venivano smantellati i padiglioni e avviate le pulizie, i delegati sono rimasti a negoziare, stanotte senza sosta, con persone che dormivano qua e là quando potevano e quel misto di disperazione e adrenalina dell’ultimo momento. Provo a riassumere il risultato.

Il bicchiere di questa Cop è mezzo…
Pieno.
Abbiamo fatto enormi e storici passi avanti fatti per loss and damage (perdite e danni): l’accordo finale prevede che nei prossimi anni si debba creare un fondo per risarcire i Paesi più vulnerabili dagli effetti del climate change, causati dai Paesi del Nord Globale. Si tratta di un punto rivoluzionario per la diplomazia climatica, a inizio della Cop27 era una flebile speranza, ma in queste due settimane la spinta è cresciuta giorno dopo giorno, grazie alle tante voci che hanno raccontato i danni di un clima che è già cambiato e che colpisce sempre più forte. C’erano molte distanze tra le parti, ma un grande cambio di passo è stato possibile grazie all’apertura dell’Ue: venerdì Frans Timmermans, vice-presidente della Commissione europea, si era detto favorevole a un fondo per l’assistenza finanziaria ai Paesi in via di sviluppo, lanciando quindi la palla a chi fino a quel momento era contrario all’iniziativa, Cina e Usa su tutti.
Mancano tutti i numeri e le regole di questo fondo, e già in passato le Cop avevano promesso di raccogliere fondi per i Paesi vulnerabili e non ci sono mai riuscite (i famosi 100 milioni dell’Accordo di Parigi), ma davvero questo è un enorme risultato. La settimana scorsa dicevo che qualcuno deve pagare: oggi quel qualcuno, ovvero noi Paesi ricchi, ha alzato la mano.
Sameh Shourkry, ministro degli Esteri egiziano e presidente di Cop27, ha commentato così l’accordo finale:
“Siamo stati all’altezza della situazione. Abbiamo lavorato 24 ore su 24, giorno e notte, ma uniti per raggiungere un obbiettivo comune. Alla fine il risultato è arrivato. Abbiamo ascoltato le voci della disperazione e dell’angoscia”.
Vuoto.
Se l’accordo è storico per quando riguarda loss and damage, fa acqua da tutte le altre parti: è debole, debolissimo e poco coraggioso. C’è un flebile riferimento all’obiettivo di mantenere l’innalzamento della temperatura entro il +1,5°C (stava per saltare dall’accordo anche questo accordo) e quasi nulla si dice della causa del climate change, i combustibili fossili. Nel testo finale dell’accordo non si parla di riduzione o eliminazione di petrolio e gas, e rimane solo il phase down (riduzione graduale) del carbone unbated (ovvero quello che non viene “abbattuto”/compensato), la stessa formula negoziata alla Cop26 di Glasgow. L’India era riuscita a proporre il phase down di tutte le fonti fossili, ma il punto è stato eliminato dopo la forte opposizione dei Paesi produttori di petrolio. E se queste sono le premesse, non si mette molto bene nemmeno per la prossima Cop, che verrà ospitata a Dubai, Emirati Arabi Uniti.
L’accordo finale è debole anche per quanto riguarda gli obiettivi di mitigazione: pochi Stati hanno aggiornato i propri in queste settimane, mentre tanti hanno combattuto perché fosse eliminata la clausola stabilita l’anno scorso a Glasgow che obbliga le parti a darsi nuovi obiettivi ogni anno più stringenti.
Se non si riconosce l’urgenza di raddrizzare la rotta e drasticamente ridurre le emissioni di gas serra, e quindi l’utilizzo di fonti fossili, la strada è segnata: ci aspettano decenni sempre più caldi, con eventi meteo sempre più estremi. Anche qui l’Ue (e l’Onu) ha provato a spingere verso scelte più forti: obiettivo del 1,5°C da perseguire con tenacia, mitigazione e rapida transizione verso fonti rinnovabili. Se per loss and fund è stata ascoltata, per questi punti non è riuscita a fare breccia.
Ecco cosa ci ricorderemo di Cop27: è stata la conferenza del loss and damage, certo, ma anche quella dove i Paesi non hanno avuto il coraggio di prevenire. Le parti sembrano dirci: non abbiamo la forza di agire ora, di intervenire a livello sistemico, tutti insieme; però abbiamo capito che dobbiamo curare, adattarci, finanziare, risarcire.
Che è già qualcosa, certo. Ma la radice del problema rimane e rimarrà: emettiamo troppi gas serra perché usiamo troppi combustibili fossili. Il segretario delle Nazioni unite, Antonio Guterres, ha commentato così il testo finale dell’accordo:
Si tratta di un importante passo verso la giustizia. Accolgo con favore la decisione di istituire un fondo per perdite e danni e di renderlo operativo nei prossimi anni. Chiaramente questo non sarà sufficiente, ma è un segnale politico assolutamente necessario per ricostruire la fiducia infranta. Le voci di coloro che sono in prima linea nella crisi climatica devono essere ascoltate.
C’è un tema che è stato poi completamente lasciato fuori da Cop27: quello della biodiversità, sempre più in pericolo per l’impatto dell’essere umano. Il 7 dicembre partirà la Cop15 di Montereal, importante appuntamento per decidere come salvaguardare piante e animali del Pianeta. Ma nel testo finale approvato a Sharm el-Sheikh non vi si fa menzione, nonostante in queste settimane molti avessero chiesto un riconoscimento formale del rapporto tra cambiamento climatico causato dall’uomo e perdita di biodiversità.
Anche sui diritti civili del Paese ospitante alla fine si è raggiunto poco. L’Egitto non ha liberato Alaa Abdel Fattah, nonostante le tante richieste da tutto il mondo. Bisogna però segnalare un rafforzamento del fronte degli attivisti: clima, diritti e lotta alle diseguaglianze sono temi sempre più legati. Non si può volere una cosa, senza collegarla alle altre. Nonostante le manifestazioni fossero pressoché impossibili a Sharm el-Sheikh, gli attivisti escono rafforzati.
Qualche letturina a tema:
Cinque temi cruciale per salvare il Pianeta e cosa ha fatto Cop27 a riguardo (Guardian)
Cop27, c’è l’accordo sulla compensazione climatica ma l’Ue esce sconfitta sulle emissioni (Domani)
Uno vale tutti, a Cop27 nasce l’ambientalismo dei diritti: ecco i protagonisti del dopo-Greta (Domani)
La battaglia persa in 25 anni di summit falliti (Carlo Petrini su La Stampa)
Una conferenza sul clima con poche donne non può pretendere credibilità (Linkiesta)
👪 Siamo 8 miliardi, ma non è questo il problema del Pianeta
Ha fatto il giro del mondo l’annuncio dell’Onu di martedì scorso: dal 15 novembre sul Pianeta siamo 8 miliardi di persone. Sono seguite analisi e commenti, incentrati su una domanda “Come si fa con tutta questa gente a essere sostenibili?”. Mi sento di dire una cosa, che ho ripetuto anche in un video per i social de La Stampa: è vero che più persone significa più spazio, più cibo, più tutto. Ma allo stesso tempo uno non vale uno: il fattore decisivo del nostro impatto non è la quantità, ma la ricchezza/lo stile di vita. In India sono circa 1 milardo, eppure le loro emissioni di gas serra sono il 7% di quelle globali; in Usa sono 330 milioni e le loro emissioni superano il 15%. Tutti i popoli del mondo aspirano a livelli più alti di benessere, ma a oggi il problema dell’impatto della nostra specie non può limitarsi al tema della sovrappopolazione, ma includere anche dei ragionamenti su ricchezza e profonde diseguaglianze.
Non solo: un altro mito ormai sfatato da decenni è quello della crescita demografica infinita. Secondo gli scienziati dovremmo raggiungere il picco fra 30-40 anni con 10 miliardi di esseri umani e poi lentamente scendere: più i Paesi raggiungono il benessere, più crolla il tasso di fecondità. In gran parte del Nord globale oggi è molto inferiore a 2,1; il valore minimo di figli che devono nascere per mantenere positiva la crescita demografica di un Paese: in Italia, per esempio è di 1,24 figli per donna. Su questo tema, se sei appassionat*, ti consiglio il libro Pianeta vuoto di Darrell Bricker e John Ibbitson (Add editore).
Bisogna aiutare la Terra a sostenere i suoi otto miliardi di abitanti (Internazionale)
🧑🏫 Il professore che si dimette perché l’università accetta il finanziamento di Eni
Il professore Marco Grasso era direttore dell’unità di ricerca “Antropocene” dell’Università Milano-Bicocca. Questa settimana si è dimesso dall’incarico perché l’Università ha firmato un accordo di ricerca congiunta con Eni, la più grande multinazionale di idrocarburi d’Italia e considerata una delle sette big oil al mondo.
Qui trovi la lettera aperta di Grasso, da leggere assolutamente. Ecco un breve estratto:
I motivi di questa non condivisione sono diversi e non derivano da pregiudizi ideologici, quanto piuttosto dalla mia conoscenza della questione che deriva da anni di ricerca e di pubblicazioni scientifiche sul ruolo e le responsabilità dell’industria petrolifera nei cambiamenti climatici. In generale, sono preoccupato da tale collaborazione in un ambito di ricerca – la transizione energetica – che aspira a risolvere i problemi che Eni, e il resto dell’industria petrolifera mondiale, causa e continua a esacerbare. Ritengo che questo rapporto sia antitetico ai valori accademici e sociali fondamentali delle università, che ne possa addirittura compromettere la capacità di affrontare l’emergenza climatica.
Abbiamo conosciuto Marco Grasso circa un anno fa, quando in una puntata della newsletter lo avevo intervistato. Da poco era uscito il suo podcast, Benzina sul fuoco, che racconta come le grandi aziende di petrolio, gas e carbone abbiano influenzato politica e ricerca nel tentativo di insabbiare gli studi sul cambiamento climatico.
Il tema del rapporto tra università e finanziamenti da parte di (o verso) aziende legate agli idrocarburi è poco dibattuto in Italia, ma moltissimo all’estero: in Regno Unito sono 100 le università che hanno già annunciato pubblicamente di aver chiuso o voler chiudere i loro rapporti con le grandi del petrolio e del gas.
📦 La falsantropia di Bezos e dei magnati del big tech
Nella settimana in cui Twitter sta implodendo, bisogna ricordare l’onda di licenziamenti recenti delle grandi aziende tech americane: Meta (la società di Facebook) 11.000 persone; Amazon 10.000; Twitter 7.500; Microsoft 1.000. Sommati fa praticamente una città italiana di medie dimensioni. È vero che l’economia è cambiata e la crescita è in flessione, ma i ricavi degli ultimi anni di queste aziende sono stati spropositati.
Jeff Bezos in questi giorni ha detto, mentre donava 100 milioni di dollari a un ente benefico, che dare via i propri soldi è “davvero difficile” (si calcola che guadagni 204 milioni al giorno). Il Guardian ha costruito attorno questa affermazione un commento: “Se per Bezos la filantropia è davvero difficile”. Infatti ciò che fa è fauxlanthropy, falsantropia, ed è molto più facile: muove milioni verso organizzazioni a lui vicine ed evita di pagare le tasse”.
Il Guardian ha fatto un calcolo: una persona normale, con un salario di circa 80 euro al giorno, donando 40 euro in un anno, dona - in proporzione - quanto dona Jeff Bezos rispetto il suo reddito annuo. In altre parole, ci sono tantissime persone che donano molto più di lui e tra l’altro pagano, sempre in proporzione, molte più tasse.
Ricordiamocelo in questi giorni di Black Friday e offerte online prima di “comprare con un click”.
📰 Rassegna verde
Bollettino attivisti radicali:
— Ultima generazione Austria ha lanciato vernice nera sul quadro Morte e vita di Gustav Klimt al museo Leopold di Vienna.
— Ultima generazione Italia invece ha rovesciato farina sulla Bmw dipinta da Andy Warhol in mostra alla Fabbrica del Vapore a Milano.
— Roma Climate Strike ha bloccato il terminal dei jet privati dell’aeroporto di Ciampino. La polizia ha posto in stato di fermo anche i giornalisti che documentavano l’azione, come ha raccontato Valerio Renzi su FanPage.
“Ero tra gli autori del report sul clima che ha fatto vincere il Nobel ad Al Gore. Ecco ciò che non sapevamo allora ma sappiamo oggi” (Fortune)
In Africa si cerca di disinnescare la guerra per i minerali preziosi (Internazionale)
Lotta alla crisi climatica? I ricchi preferiscono le armi (La Svolta)
Non dobbiamo mai stancarci di parlare della sorte dei ghiacciai (Linkiesta)
📸 Le mie foto preferite
Un macaco porta a spasso il suo nuovo amico, un cucciolo di cane a Dhaka, Bangladesh. Non è chiaro perché la scimmia si comporti così, ma le foto sono particolarmente spassose, ce ne sono altre qui.
💚 Grazie!
Se sei arrivat* fin qui sotto, vuol dire che Il colore verde ti piace davvero e ti è utile: grazie per supportare questa newsletter. Il colore verde è nato nel 2020 e lo curo io, Nicolas Lozito, friulano, 31 anni. Sono un giornalista e lavoro a La Stampa. La newsletter esce ogni sabato, feste incluse. Nel 2021 ha vinto un premio, assegnato dal Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici e Radio 3 Scienza.
La comunità de Il colore verde ha anche un bosco di 100 alberi in Guatemala, piantato da ZeroCO₂: trovi la sua storia e i suoi dati qui.
Da quando mi occupo di ambiente, ho curato anche tre podcast: Climateers (2021, prodotto da Pillow talk), Cambiamenti (2022, Emons record), e Verde speranza (2022, Onepodcast/La Stampa).
Se vuoi darmi una mano:
• Condividi la puntata sui social. Se lo fai su Instagram, taggami: nicolas.lozito.
• Considera una donazione. Mi aiuteresti a sostenere questo progetto editoriale. Puoi donare su DonorBox o Paypal.
Cop27, il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto
Grazie davvero!
Sempre molto interessanti le notizie che selezioni ogni settimana.
Grazie