🌍 Il colore verde: Il tasso del contagio del cambiamento climatico
Il tasso del contagio del cambiamento climatico
Le Warming stripes, un metodo per visualizzare l'aumento della temperatura media sulla Terra nel corso degli anni (Ed Hawkins/Università di Reading)
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Affaticamento da apocalisse
Parlare efficacemente di cambiamento climatico porta con sé sempre due grandi controindicazioni. Uno, la saturazione di brutte notizie. Due, la distanza dell’orizzonte temporale.
Il cambiamento climatico non fa molto male ora, ma farà malissimo fra qualche anno. Così male che nessuno ci vuole pensare. Un po' come le indicazioni sui pacchetti di sigarette: qualcuno hai mai smesso di fumare per quelle immagini? No.
La sensazione di scoraggiamento e diffidenza che proviamo tutti, ambientalisti compresi, di fronte alle notizie sul cambiamento climatico si chiama apocalypse fatigue: ci affatichiamo a sentir parlare dei drammi ambientali che vivremo o che i nostri figli vivranno. Ci sembra di non aver alcuna possibilità di risolverli (YALE).
Allo stesso tempo, però, proiettarsi nel futuro ci aiuta a percepire il problema come reale, umano e ci fa capire che l’intervento è urgente e necessario. Un esempio: se vediamo una nostra foto invecchiate grazie al fotoritocco, siamo portati a prendere decisioni economiche ponderate, come ha dimostrato uno studio di Hal Hershfield dell’Università di Los Angeles.
Guardare in faccia il proprio sé del futuro accorcia la strada che il nostro cervello deve compiere per immaginare problemi all’apparenza distanti e insormontabili.
Questa settimana il nostro possibile futuro si vede meglio: è uscito uno studio abbastanza preoccupante che sostiene che fra 50 anni almeno un terzo della popolazione potrebbero vivere in zone così calde da essere inabitabili. Il dato fa paura, ma a leggere bene lo studio possiamo trarne qualche lezione utile.
Colonna sonora dell'apocalisse: When the man comes around di Johnny Cash
UNA PREMESSA —
Partiamo con una premessa: il cambiamento climatico esiste perché la temperatura media del Pianeta sta cambiando. Cambia a causa dell’essere umano e delle emissioni antropiche di gas serra (industria, agricoltura, trasporti, ecc.). L’eccesso di gas serra provoca un effetto “piumino” e trattiene l’energia dei raggi del sole che arrivano sulla Terra.
La temperatura media è l’indicatore con cui si registra il cambiamento climatico: a oggi la temperatura è cresciuta di poco più di un grado rispetto all’epoca pre-industriale, e la maggior parte della crescita è arrivata dal 1975. Non significa che in qualsiasi punto del mondo la temperatura sia esattamente 1°C più alta. L’aumento è distribuito in maniera non equa: nel mare è minore, sulla terra è maggiore.
Gli scienziati non pensano che la temperatura possa ritornare a livelli pre-industriali. Però, in base alle decisioni che prenderemo, ci sono scenari diversi sulla temperatura che raggiungeremo in questo secolo. Il più “felice” è quello a cui puntavano gli accordi internazionali di Parigi del 2015: stabilizzarci entro il +1,5°C nei prossimi 50 anni (Ec), riducendo progressivamente il nostro impatto. Lo scenario peggiore è quello del cosidetto “business as usual”, ovvero del “proseguire come si sta facendo ora”. Così, la temperatura media entro il 2070 salirà di 3°C gradi, causando danni enormi (CarbonBrief).
Una infografica che avevo realizzato nel 2016 per La Stampa e che non rivedevo da quella volta: nel frattempo ogni anno successivo è stato “il più caldo di sempre”
NICCHIA ECOLOGICA—
Un Pianeta mediamente e velocemente più caldo di 3°C è un pianeta dove la vita, o almeno la vita come la conosciamo ora, prospera con più difficoltà. Lo studiamo a scuola: animali e piante crescono e vivono in climi specifici. Riescono ad adattarsi, certo, ma fino a un certo punto: hanno bisogno della loro nicchia ecologica. Lo dice persino Flaubert, a modo suo, in Madame Bovary:
«Non occorreva forse all’amore, come alle piante indiane, terreni appositamente preparati e una temperatura particolarmente graduata?»
La stessa cosa vale per l’essere umano: non solo dobbiamo evitare di morire di caldo o di freddo, ma il clima è decisivo per l’agricoltura, l’allevamento, la costruzione di città, eccetera.
Secondo lo studio internazionale uscito lunedì scorso e curato da cinque ricercatori, l’essere umano da 6000 anni ha una nicchia ecologica specifica: la civiltà umana prospera nella fascia geografica dove la temperatura media annuale va dagli 11 ai 15°C. È una temperatura media che troviamo in quasi tutte le zone popolate della Terra, a esclusione di una piccola porzione rappresentata delle aree monsoniche, dove la temperatura media è di 20-25°C. Secondo lo studio è proprio la temperatura media ad aver reso adatti certi luoghi piuttosto che altri: conta più della quantità di precipitazioni, della fertilità del suolo e della presenza di vegetazione.
Un’iniziativa recente del Wwf insieme al Museo del Prado di Madrid: le scene dei quadri se subissero gli effetti del cambiamento climatico. Nell’immagine: il Passaggio agli Inferi del fiammingo Joachim Patinir del XVI secolo.
29°C—
Ma cosa succederà in futuro a questa nicchia ecologica, quando il mondo sarà più popoloso e caldo? Se non mettessimo in atto nuove politiche volte a contrastare le emissioni di CO2 (quindi business as usual), la posizione geografica della nicchia si sposterà moltissimo. Di più nei prossimi 50 anni che nei precedenti 6000. Andrà verso latitudini superiori, ovvero verso Nord nell’emisfero boreale e verso Sud in quello australe.
Nel 2070 il 19% del Pianeta potrebbe avere una temperatura media superiore ai 29°C, condizione che al momento si registra solo in alcuni punti del Sahara – equivalenti all’0,8% della superficie terrestre. La temperatura sarebbe troppo alta in buona parte dell’Africa, dell’America centrale e del Sud, in Australia, India, Sud-est asiatico.
La mappa con i luoghi troppo caldi nel 2070: tutti quelli con il rigatino e nero
Secondo gli studiosi, nel 2070 3,5 miliardi di persone potrebbero vivere in zone dove la temperatura è assolutamente proibitiva e inospitale, soprattutto in Paesi in via di sviluppo e dove il tasso di natalità è alto. Come sappiamo, già ora le migrazioni climatiche esistono, e in futuro saranno un fenomeno sempre più grande: significa che 3,5 miliardi di persone potrebbero essere costrette a cercare nuove aree dove vivere. Circa il 30% della popolazione totale prevista per il 2070 potrebbe bussare alle porte degli Stati più freddi. O di casa nostra: anche se persino il Sud Italia sarà già in forte difficoltà.
L’R0 DEL CLIMA—
È uno scenario apocalittico e quindi tendiamo a non prestare attenzione. Ma c’è un altro dato decisivo: se si prende l’ipotesi più “felice”, in cui la temperatura rimane entro il + 1,5°C, le persone che potrebbero vivere in aree con temperatura media superiore a 29°C sarebbero comunque moltissime: 1,5 miliardi. «[In generale] ogni grado di temperatura media in più sul Pianeta rispetto al livello attuale corrisponde grossomodo, se si esclude la possibilità di migrazione, a un miliardo di persone che fra 50 anni vivrà in aree inospitali» spiegano i ricercatori.
Qui sta la chiave di volta. Abbiamo un indicatore approssimativo ma efficace per capire l’impatto del cambiamento climatico. Un modo molto semplice di fare i conti. Un grado, un miliardo: se vogliamo, possiamo definirlo il tasso del contagio del cambiamento climatico.
Riassunto di questa puntata
In questo periodo di pandemia siamo ormai abituati a sentire parlare di R0, il tasso con cui si diffonde il coronavirus. Se l’R0 di una malattia è minore di 1 significa che un infetto contagia a sua volta meno di una persona e quindi della diffusione malattia verrà limitata. Se è superiore a 1, la crescita sarà esponenziale:si creerà una sorta di catena di Sant’Antonio.
Con il cambiamento climatico il pensiero è simile: all’aumentare della temperatura media i risultati previsti colpiranno sempre più persone. Non sappiamo esattamente quanti, non sappiamo esattamente come sarà il nostro Pianeta in futuro. Gli studi sul clima certo non ci danno la possibilità di viaggiare nel tempo. Ma ci danno una possibile anteprima, come la foto ritoccata della nostra vecchiaia. A volte può bastare per darci una una traccia, o una spinta gentile, e per farci prendere la giusta direzione.
Cito un altro romanzo, con cui concludo e vi lascio al primo weekend fase due. Si tratta de Il colibrì di Sandro Veronesi (Nave di Teseo):
«Come quando ci si alza dal letto, di notte, e ci si ritrova a brancolare nel buio della nostra stanza per andare in bagno, e ci sentiamo smarriti, e accendiamo la luce per mezzo secondo, e poi la rispegniamo subito, e quel lampo ci mostra la strada».
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Alcuni articoli interessanti usciti questa settimana:
• How modelling articulates the science of climate change (The Economist)
• Forse abbiamo capito come ridurre le emissioni inquinanti dei bovini (Il Post)
• L'ecofascismo si sta impossessando del dibattito culturale (The Vision)
PS. Perché siamo qui
Per l'occhio umano, il verde è il colore con più sfumature. Distinguiamo moltissime varietà di verde. C'entra l'evoluzione: i primati da cui deriviamo si nutrivano prevalentemente di piante e frutta e per loro era vitale poter distinguere ciò che li circondava.
Oggi, sono molte anche le sfumature di verde quando parliamo di cambiamento climatico e all'ambientalismo. I media tradizionali tendono a dare voce o agli scettici o a chi ha un approccio inarrestabile e radicale, con l'effetto di ghettizzare le posizioni e scoraggiare i moderati.
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