🌍 Il colore verde 04: Torniamo alla plastica monouso?
Il colore verde
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#04: Torniamo alla plastica monouso?
Una foto dello scorso 1 febbraio, scattata in Cina, quando qui ancora non c'era paura per il coronavirus: due bambini con la mascherina e una visiera ricava ritagliando un bottiglione di plastica (foto di Alex Plaveski/EPA)
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La nostra idea di plastica
Come molti di voi, faccio la spesa portando con me lo zaino e alcune borse di tela. Qualche giorno fa, alla cassa di un supermercato romano, mi hanno chiesto di non tirarle fuori. Hanno detto che era una questione di igiene e che mi avrebbero dato loro i sacchetti di plastica. Ho accettato, sono tornato a casa e ho messo a lavare le borse di tela.
Negli stessi giorni usciva il risultato di uno studio: la plastica e il metallo sono i materiali su cui il coronavirus rimane attivo per più tempo. Fino a sette giorni. [A fine mail trovate un approfondimento a riguardo]
Ecco quindi il dilemma, personale, sociale e politico: in questa crisi mondiale del coronavirus, la plastica fa la parte dell'eroe o del cattivo?
Dobbiamo tornare alla plastica monouso, ai mille imballaggi, per salvare la nostra salute? E che dire della plastic tax e le altre leggi che i Paesi stavano introducendo? È meglio fare marcia indietro, come sta ipotizzando il governo italiano, per agevolare la ripartenza economica?
LIFE IN PLASTIC ——
Produciamo ogni anno più di 400 milioni di tonnellate di plastica. Da quando la plastica è stata inventata, negli Anni '50, abbiamo prodotto 8 miliardi di tonnellate di plastica. Il peso equivalente di più di un miliardo di elefanti (Our World Data).
Di questa plastica, il 9% è stato riciclato, il 12% incenerito e il resto è da qualche parte nel mondo come prodotto di scarto. Dopo il vetro, la plastica è il materiale con tempi di biodegradabilità più lunghi. Millenni, a volte.
Persino il sacchetto biodegradabile del supermercato ci mette anni per sciogliersi (Sci Total Environ).
La produzione di plastica è sempre in crescita. Le uniche volta in cui la produzione è diminuita? 1975 e 2008, due recessioni. Ma quando l'economia è ripartita la produzione di plastica è salita più velocemente, recuperando il passo. Aumenta anche il riciclo, ma non alla stessa velocità: ora si recupera in media il 20% della produzione mondiale. In Europa le cose vanno meglio, ma non troppo: il 42% degli imballaggi viene riciclato.
LA PLASTICA COME DATORE DI LAVORO ——
La plastica, che deriva dalla raffinazione del petrolio, ha avuto così tanto successo per la sua versatilità e il suo basso costo. Solo in Europa, l'industria della plastica dà lavoro a 1,5 milioni di persone e più di 60.000 aziende (PlasticsEurope).
Il giro d'affari, compreso l'indotto, è di 355 miliardi di euro. In Europa si produce il 18,5% della plastica mondiale, più che in tutto il Nord America (la Cina è la prima produttrice, 51%). L'Italia è il secondo produttore di plastica in Europa, dopo la Germania. L'utilizzo maggiore della plastica in Europa è per gli imballaggi.
La domanda di plastica in Europa: la maggior parte dell'utilizzo è dedicato agli imballaggi. Se sommati alla plastica usata nell'edilizia arriviamo a quasi il 60% del totale. (PlasticsEurope)
INCENTIVARE IL RIUTILIZZO ——
Negli ultimi anni, però, i governi stanno provando a mettere in atto politiche a favore del riciclo e dell'economia circolare, grazie alla spinte ambientaliste e agli accordi internazionali. Nel 2019 l'Unione europea ha approvato una direttiva per vietare la plastica monouso, ovvero tutto ciò che è usa e getta, a partire dal 2021. In molti altri Paesi del mondo si stanno introducendo norme simili. Mettendo in pratica l'enciclica Laudato si' di Papa Francesco, da quest'anno il Vaticano è il primo Paese al mondo dove non si vende più plastica monouso.
E ALLA FINE ARRIVA IL VIRUS ——
Proprio mentre gli Stati, aziende e grandi marchi introducevano o sperimentavano le nuove regole, ecco che arriva il coronavirus. A inizio marzo Starbucks, la catena americana di caffetterie, ha vietato ai consumatori di portare le loro tazze e termos riutilizzabili. I governatori di Massachusetts e Illinois hanno vietato l'uso di borse riutilizzabili nei supermercati. In Maine, la legge che avrebbe vietato il mono-uso doveva entrare in vigore ad aprile: è stata rinviata al 2021. E così via. In contemporanea si sono messe in moto le pressioni politiche delle lobby dei produttori di plastica: «l'utilizzo di plastica monouso è la scelta più sanitaria per moltissime applicazioni», sostiene la Plastic Industry Association.
Ed è necessariamente vero, se ci pensate: mascherine, guanti, dispositivi medici. Pensate a quei medici e infermieri della Casa di cura del Policlinico di Milano che al Corriere hanno raccontato:
«[Non abbiamo] nessuna tuta integrale a coprire camici troppo corti e aperti sulla schiena. Buste di plastica sulle gambe e attorno al collo, cuffie per la distribuzione di alimenti in testa. E metri di nastro adesivo per tenere insieme queste armature di fortuna contro la pandemia».
Un infermiere della Casa di cura del Policlinico di Milano. (Corriere della Sera)
PLASTIC TAX——
Anche in Italia politica, associazioni e industria hanno iniziato a discutere del ruolo della plastica. In particolare della plastic tax, tassa che dovrebbe entrare in vigore il prossimo luglio.
La plastic tax è un'imposta sui manufatti con singolo impiego, i MACSI, ovvero la plastica monouso. Chi la produce dovrà versare allo Stato 45 centesimi ogni chilo di plastica fabbricata. (Termini di paragone: una bottiglia d'acqua pesa meno di 30 grammi). Si paga anche sul Tetra Pak, ma non sui prodotti biodegradabili e sui i contenitori di medicinali e i dispositivi medici. Alla tassa si affianca un incentivo: è previsto un credito d'imposta del 10% per le aziende che convertono la produzione verso prodotti biodegradabili.
In molti, oggi, stanno chiedendo che la tassa venga tolta, sospesa o rimandata, per favorire così la ripartenza economica in questo momento difficile. Associazioni industriali, come Federalimentare, imprenditori, governatori e politici, di opposizione e di governo. La ministra dell'Agricoltura Teresa Bellanova ha parlato di «disastro occupazionale» qualora la tassa entrasse in vigore a luglio e il ministro dell'Ambiente Sergio Costa si è detto disponibile a ridiscutere il tema, inclusa la sugar tax sulle bevande zuccherate, nei prossimi Consigli dei Ministri.
CHI PAGA IL PREZZO ——
Ho chiesto a Giuseppe Ungherese, coordinatore delle campagne inquinamento di Greenpeace, cosa ne pensano loro.
«È inutile lanciarsi ora in una crociata per demonizzare o santificare la plastica. La scienza non ci ha dato abbastanza risposte. Ma ci vuole accortezza in questa fase: è evidente che il mondo industriale tenta di cavalcare la crisi per ritornare alle vecchie maniere. Ma ora è il momento per ripartire con le mosse giuste, come fosse un reset. La plastic tax non va tolta, né bisogna minare il green new deal* (*i programmi politici a favore dell'economia circolare) di cui il governo e l'Europa hanno parlato».
Conclude Ungherese: «Le buone azioni dei singoli, poi, devono continuare. Le spiagge di Hong Kong sono già piene di mascherine e questo non è accettabile. Ogni azione conta».
Come va la raccolta differenziata degli imballaggi in Europa. Noi siamo lì in mezzo. (Eurostat, dati 2017)
LA SFIDA——
Plastica buona o cattiva, quindi? La sentenza rimane sospesa. Ed è un bene. Provo a dirvi come la penso io, ma vi invito a rispondere alla mail e dirmi la vostra.
Credo che non sia il momento giusto per battersi contro la plastica mono-uso: nel breve periodo si è rivelata ancora più utile e fondamentale.
Credo che le aziende della plastica italiana sia in grado di reggere la tassa a partire da luglio: molte di queste aziende producono imballaggi, soprattutto per la grande distribuzione. Non sono aziende enormi, perché l'industria della plastica è ricca ma comunque molto frammentata, specialmente in Italia, dove le aziende che lavorano la plastica sono quasi 10.000.
Credo che la tassa verrà comunque rinviata, ed è legittimo che accada.
Credo infine che le scelte politiche e industriali siano importanti, ma le nostre ancora di più. Il coronavirus ci costringe a stare più all'erta, ma non ci giustifica a essere peggiori di prima. Anzi, è proprio il contrario.
Il posto giusto per buttare mascherine e guanti è il cestino, non il centro della strada. Pensate ai fazzoletti usati: lì può esserci molto più virus, eppure il fazzoletto lo mettiamo in tasca e aspettiamo di buttarlo nel cestino corretto.
La raccolta differenziata dobbiamo continuare a farla, anche se gestire i rifiuti in questo periodo è più complicato. Anzi, proprio ora che siamo tutti in casa, dovremmo prestare più attenzione a quanti rifiuti produciamo e cercare di diminuirli. Etichette di biodegradabilità o di materiale riciclato non sono un lasciapassare per consumare troppo e all'infinito.
Siamo di fronte a un tema complesso, che al cambiare dell'orizzonte temporale muta nell'impatto. La plastica oggi risolve dei problemi, ma ne crea al nostro futuro e quello degli altri. Come diceva mio nonno: c'è sempre un prezzo da pagare. Evitare un conto sociale e sanitario troppo salato per il coronavirus è necessario, ma appena sarà finito dobbiamo essere pronti per le sfide che avevamo messo in secondo piano.
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Se vi può essere utile, ho messo qui sotto un capitolo corollario sullo studio della durata del virus sulle superfici.
Una combinazione di immagini scattate da Dan Giannopoulos a Londra che mostra guanti e mascherine abbandonate a Londra (BBC)
Extra il virus sulle superfici
Il virus si trasmette per contatto, diretto o indiretto, con una persona contagiata con o senza sintomi. Viene passato attraverso i famosi "droplet", che in inglese significa goccioline: ovvero saliva nebulizzata che esce dalla nostra bocca quando parliamo, stranutiamo, eccetera. All'interno delle goccioline è "aggrappato" anche il virus attivo. Le goccioline possono arrivare anche in maniera indiretta, tipo una stretta di mano. Per questo bisogna lavarsi le mani spesso e starnutire nel gomito.
C'è ancora poca conoscenza di come come il virus può essere trasmesso attraverso aria e superfici. Si tratta di possibilità molto - molto! - minori rispetto al contatto ravvicinato con persone infette in ambienti chiusi.
Ci sono due importanti studi sulla permanenza del virus sulle superfici. Il primo è del 17 marzo, pubblicato dalla New England Journal of Medicine. L'altro è stato pubblicato su Lancet il 2 aprile. Vi riassumo quest'ultimo. Alla temperatura di 22 gradi e un'umidità del 65%, la stabilità del virus, ovvero la sua capacità di rimanere attivo cambia a seconda della superficie su cui si trova. Sulle superfici più lisce rimane di più. Nel dettaglio, non si trovano più tracce di virus attivo in:
· carta e fazzoletti: massimo tre ore
· legno e stoffe: due giorni
· vetro e banconote: quattro giorni
· plastica e metallo: sette giorni,
· l'esterno di una mascherina: oltre sette giorni.
Attenzione però a leggere queste informazioni: la quantità di virus attivo al momento del contatto va a diminuire nel corso del tempo. In parole semplici, muore un po' alla volta. Quando leggete «su plastica e metallo resiste fino a 7 giorni» significa che il sesto giorno c'era una piccolissima percentuale attiva rispetto al primo e dal settimo non c'era più nulla.
Lo studio ci dice un'altra cosa interessante: a temperature basse il virus "vive" di più. A 4°C, stando dentro una provetta, rimane attivo fino a 14 giorni, ma se la temperatura sale a 37°C il virus resiste solo un giorno. A 22°C, sette giorni. Di nuovo: nel corso dei giorni perde comunque molta della sua carica.
PS. Perché siamo qui
Per l'occhio umano, il verde è il colore con più sfumature. Distinguiamo moltissime varietà di verde. C'entra l'evoluzione: i primati da cui deriviamo si nutrivano prevalentemente di piante e frutta e per loro era vitale poter distinguere ciò che li circondava.
Oggi, sono molte anche le sfumature di verde quando ci si riferisce alle sfide del cambiamento climatico e all'ambientalismo. I media tradizionali tendono a dare voce o agli scettici o a chi ha un approccio inarrestabile e radicale, con l'effetto di ghettizzare le posizioni e scoraggiare i moderati.
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